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Sommario: 1. La massima – 2. Il caso di specie – 3. La decisione della Corte – 4. Onere della prova – 5. Osservazioni conclusive

1. La massima

<<In tema di IVA, l’Amministrazione finanziaria, se contesta che la fatturazione attenga ad operazioni soggettivamente inesistenti, inserite o meno nell’ambito di una frode carosello, ha l’onere di provare, non solo l’oggettiva fittizietà del fornitore, ma anche la consapevolezza del destinatario che l’operazione si inseriva in una evasione d’imposta, dimostrando, anche in via presuntiva, in base ad elementi oggettivi e specifici, che il contribuente era a conoscenza, o avrebbe dovuto esserlo, usando l’ordinaria diligenza in ragione della qualità professionale ricoperta, della sostanziale inesistenza del contraente; ove l’Amministrazione assolva a detto incombente istruttorio, grava sul contribuente la prova contraria di avere adoperato, per non essere coinvolto in un’operazione volta ad evadere l’imposta, la diligenza massima esigibile da un operatore accorto, secondo criteri di ragionevolezza e di proporzionalità in rapporto alle circostanze del caso concreto>>[1]. Cassazione civ., sez. V, ordinanza 12/04/2024, n. 9962

2. Il caso di specie

Per far meglio comprendere la decisione resa nel caso di specie, occorre necessariamente ripercorrere le tappe fondamentali del contenzioso in cui la pronuncia interviene.

Nel 2008 una Associazione Agricola era attinta da tre avvisi di accertamento, mediante i quali l’Agenzia delle Entrate di Caltanissetta, sulla base di PVC della GdF, riscontrava indebita detrazione dell’IVA relativamente a costi sostenuti per operazioni inesistenti intercorse con una s.r.l..

La CTP di Caltanissetta, adita dall’Associazione, accoglieva il ricorso, sul rilievo che la contribuente, producendo “perizia”, aveva documentato come l’opera fosse stata ampiamente realizzata ancorché non completata e non operativa.

Tuttavia, la CTR accoglieva l’appello proposto dall’Ufficio sul presupposto che quest’ultimo, invero, avesse sottoposto al Collegio molteplici indizi che deponevano in direzione dell’assenza di un rapporto regolato contrattualmente nonché della genericità della descrizione dei lavori effettuati, oltre che della sostanziale inesistenza della società emittente.

Da qui, allora, il giudizio che ha portato alla pronuncia in commento.

3. La decisione della Corte

Il presente contributo prende in esame un segmento del complesso contenzioso insorto fra l’Associazione Agricola e l’Agenzia delle Entrate; infatti, verrà analizzato solo il primo motivo del ricorso in cassazione proposto dall’Associazione, con il quale si denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697,2727 e 2739 c.c. in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c..

Sul punto, ad avviso del ricorrente, la CTR sarebbe incorsa in errore per non aver rilevato che l’Ufficio non aveva fornito la prova della connivenza della contribuente con la s.r.l. e comunque della consapevolezza della prima della frode agita dalla seconda. In tal modo, la Commissione regionale non avrebbe fatto corretta applicazione del riparto dell’onere della prova in materia, atteso che spetta all’Amministrazione di provare la connivenza o consapevolezza del cessionario.

Secondo la tesi dell’Associazione ricorrente, in altre parole, l’imprenditore commerciale non può rispondere dell’eventuale natura fraudolenta delle operazioni, occorrendo la dimostrazione della piena conoscenza e della partecipazione alla frode fiscale o dell’accordo simulatorio con la società cedente.

La decisione in commento, però, respinge il ricorso spiegato dall’Associazione, enunciando i principi riportati in epigrafe.

Vale ricordare, a tale proposito, che la prova gravante sull’Amministrazione ben può consistere in attendibili indizi, anche tratti da indagini penali, siccome idonei ad integrare finanche una presunzione semplice, in conformità a quanto, per l’IVA espressamente prevede l’art. 54, comma 2, d.P.R. n. 633 del 1972.

Nel caso in questione, per la Corte di legittimità, l’Ufficio ha presuntivamente offerto la prova, quantomeno, della possibilità di conoscenza della frode in capo alla contribuente, allorquando – in assenza di documentazione riguardante rapporti commerciali tra la medesima e la s.r.l. – ha dimostrato la sostanziale inesistenza di quest’ultima: ciò di cui la contribuente non poteva (salva non fornita prova contraria) non avvedersi, in considerazione, trattandosi dell’esecuzione di un appalto, della totale mancanza di organizzazione e di beni strumentali necessari a fornire le prestazioni.

Da tale prospettiva,  l’Ufficio non era affatto onerato della prova della connivenza o consapevolezza, essendo sufficiente che la contribuente versasse nelle condizioni anche solo di poter sapere della frode, adottando tutte le cautele necessarie al fine di non essere coinvolta.

In argomento mette conto pure di ricordare che l’insegnamento della giurisprudenza unionale – a termini della quale, dinanzi ad operazioni soggettivamente inesistenti, l’Amministrazione è tenuta a provare che il concessionario sapeva o avrebbe dovuto sapere che la cessione si inseriva in una evasione dell’IVA, ma non anche la partecipazione all’evasione stessa[2] – è recepito dalla giurisprudenza interna, in seno alla quale trovasi costantemente ripetuto il principio secondo cui “in tema di IVA, in virtù degli artt. 19 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, e 17 della Direttiva UE 17 maggio 1977, n. 388, osta al riconoscimento del diritto alla relativa detrazione da parte del cessionario, non soltanto la prova del suo coinvolgimento nella frode fiscale, ma anche quella della mera conoscibilità dell’inserimento dell’operazione in un fenomeno criminoso, volto all’evasione fiscale, la quale sussiste ove il cessionario, per essendo estraneo alle condotte evasive, ne avrebbe potuto acquisire consapevolezza mediante l’impiego della specifica diligenza professionale richiesta all’operatore economico, avuto riguardo alle concrete modalità e alle condizioni di tempo e di luogo in cui si sono svolti i rapporti commerciali, mentre non occorre anche il conseguimento di un effettivo vantaggio” [3].

4. Onere della prova

L’ordinanza oggetto della presente nota, offre lo spunto per brevi considerazioni sul tema – più volte affrontato e variamente risolto dalla giurisprudenza di legittimità e dalla dottrina – del riparto degli oneri probatori tra Amministrazione e contribuente in caso di fatture emesse per operazioni soggettivamente inesistenti.

La giurisprudenza costante ed uniforme della Corte di legittimità[4] ha affermato che nel processo tributario gli elementi indiziari, ove rivestano i caratteri di gravità, precisione e concordanza di cui all’art. 2729 cod. civ., danno luogo a presunzioni semplici, generalmente ammissibili, e costituiscono, pertanto, una prova completa alla quale il giudice di merito può attribuire rilevanza, anche in via esclusiva, ai fini della formazione del proprio convincimento, nell’esercizio del potere discrezionale di individuare le fonti di prova, controllarne l’attendibilità e la concludenza e scegliere, fra gli elementi probatori sottoposti al suo esame, quelli ritenuti più idonei a dimostrare i fatti costitutivi della domanda, atteso che nel nostro ordinamento, fondato sul principio del libero convincimento del giudice, la decisione del giudice può anche fondarsi su una sola presunzione, eventualmente in contrasto con altre prove acquisite, se da lui ritenute di tale precisione e gravità da rendere inattendibili gli altri elementi di giudizio ad esso contrari, alla sola condizione che fornisca del convincimento così attinto una giustificazione adeguata e logicamente non contraddittoria.

A supporto ulteriore di tale conclusione, in tema di IVA la Suprema Corte ha reiteratamente rilevato come l’Amministrazione finanziaria, ove ritenga che il diritto alla detrazione debba essere negato attenendo la fatturazione ad operazioni soggettivamente inesistenti, ha l’onere di provare, anche avvalendosi di presunzioni semplici, che il contribuente al momento dell’acquisto del bene o del servizio sapeva o avrebbe dovuto sapere, con l’uso dell’ordinaria diligenza, che l’operazione invocata a fondamento del diritto a detrazione si inseriva in una evasione commessa dal fornitore; nelle ipotesi più semplici (operazioni soggettivamente inesistente di tipo triangolare), detto onere può esaurirsi, attesa l’immediatezza dei rapporti, nella prova che il soggetto interposto è privo di dotazione personale, mentre in quelle più complesse di “frode carosello” (contraddistinta da una catena di passaggi, in cui sono riscontrabili fatturazioni per operazioni sia oggettivamente che soggettivamente inesistenti, con strumentali interposizioni anche di società “filtro”) occorre dimostrare gli elementi di fatto caratterizzanti la frode e la consapevolezza di essi da parte del contribuente[5].

Con riferimento alla detraibilità dell’Iva ed alla deducibilità dei costi nel caso di fatture relative ad operazioni oggettivamente inesistenti, la Suprema Corte di legittimità ha poi evidenziato che la fattura, di regola, è documento idoneo a rappresentare un costo d’impresa, come si evince dall’art. 21 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, che ne disciplina il contenuto, e costituisce titolo per il contribuente ai fini del diritto alla detrazione dell’I.V.A. e alla deducibilità dei costi, sicché, nella ipotesi di fatture che l’Amministrazione ritenga relative ad operazioni inesistenti, non spetta al contribuente provare che l’operazione è effettiva, ma spetta all’Ufficio, che adduce la falsità del documento, dimostrare che l’operazione commerciale, oggetto della fattura, in realtà non è mai stata posta in essere[6].

Tale prova può essere fornita anche mediante elementi indiziari e presuntivi, poiché la prova presuntiva non è collocata su un piano gerarchicamente subordinato rispetto alle altre fonti di prova e costituisce una prova completa alla quale il giudice di merito può attribuire rilevanza anche in via esclusiva ai fini della formazione del proprio convincimento[7] .

Tale prova contraria, tuttavia, non può consistere nella mera esibizione della fattura o nella dimostrazione della regolarità formale delle scritture contabili o dei mezzi di pagamento, poiché questi sono facilmente falsificabili e vengono normalmente utilizzabili proprio allo scopo di far apparire reale un’operazione fittizia[8].

Va anche ricordato l’orientamento della Suprema Corte per cui una volta accertata l’assenza della operazione, è escluso che possa configurarsi la buona fede del cessionario o committente, il quale ovviamente sa bene se ed in quale misura ha effettivamente ricevuto il bene o la prestazione per la quale ha versato il prezzo o corrispettivo[9] .

È appena il caso di aggiungere che, in tema di IVA, il diritto alla detrazione dell’imposta non sorge per il solo fatto dell’avvenuto pagamento dell’imposta formalmente indicata in fattura, richiedendosi, altresì, l’inerenza dell’operazione all’impresa, requisito questo mancante in relazione all’IVA corrisposta per operazioni (anche parzialmente) oggettivamente inesistenti, stante la sua inidoneità a configurare un pagamento a titolo di rivalsa in quanto costituente un costo non inerente all’attività dell’impresa e potenziale espressione di distrazione verso finalità ulteriori e diverse, tali da spezzare il detto nesso di inerenza[10].

5. Osservazioni conclusive

Innanzitutto, va rilevato che l’approdo della giurisprudenza[11] sulla questione del riparto degli oneri probatori è nel senso che, in caso di ripresa per operazioni oggettivamente inesistenti ove la fattura costituisca in tutto o in parte mera espressione cartolare di operazioni commerciali mai poste in essere da alcuno, l’Amministrazione ha l’onere di fornire elementi probatori, anche in forma indiziaria e presuntiva, del fatto che l’operazione fatturata non è stata effettuata[12].

In buona sostanza, nel caso di operazioni soggettivamente inesistenti, è onere dell’Amministrazione che contesti il diritto del contribuente a portare in deduzione il costo ovvero in detrazione I’IVA pagata su fatture emesse da un concedente diverso dall’effettivo cedente del bene o servizio, dare la prova che il contribuente, al momento in cui acquistò il bene od il servizio, sapesse o potesse sapere, con l’uso della diligenza media, che l’operazione invocata a fondamento del diritto a detrazione si è iscritta in un’evasione o in una frode. La dimostrazione può essere data anche attraverso presunzioni semplici, valutati tutti gli elementi indiziari agli atti, attraverso la prova che, al momento in cui ha stipulato il contratto, il contribuente è stato posto nella disponibilità di elementi sufficienti per un imprenditore onesto che opera sul mercato e mediamente diligente, a comprendere che il soggetto formalmente cedente il bene al concedente aveva, con l’emissione della relativa fattura, evaso l’imposta o compiuto una frode[13] .

Inoltre, l’onere dell’Amministrazione finanziaria sulla consapevolezza del cessionario va ancorato al fatto che questi, in base ad elementi obiettivi e specifici, che spetta all’Amministrazione individuare e contestare, conosceva o avrebbe dovuto conoscere che l’operazione si inseriva in una evasione all’Iva e che tale conoscibilità era esigibile, secondo i criteri dell’ordinaria diligenza e alla luce della qualificata posizione professionale ricoperta, tenuto conto delle circostanze esistenti al momento della conclusione dell’affare e afferenti alla sua sfera di azione[14].

Pertanto, riguardo la disciplina del riparto dell’onere della prova in tema di frodi carosello, il contribuente deve provare non solo di non essere consapevole della frode (“non sapeva”), ma anche di avere adottato tutte le misure necessarie ad evitare di restare coinvolto nella stessa (“non lo possa sapere”).

 

 

 

 

 

 


[1] Nello stesso senso, v. Cassazione civ., n. 12258/2018; n. 17818/2016; n. 25778/2014.
[2] V. Corte Giust. Ppuh, C- 277/14; Corte Giust. Bonik, C- 285/11.
[3] Sul tema, cfr. Cassazione civ., sez. V, 10/02/2022, n. 4250; in tal senso, Cassazione civ., n. 15369/2020, n. 13545/2018, n. 13803/2014.
[4] Cfr. Cassazione civ., n. 8484/2009, n. 24028/2009, n. 21961/2010, n. 9245/2007, n. 19088/2007, n. 10847/2007.
[5] Cfr. Cassazione civ., sez. V, sentenza n. 24426/2013; v. anche Cassazione civ., n. 6864/2016, secondo cui l’Amministrazione finanziaria non può limitarsi a dimostrare l’inidoneità operativa del cedente, ma deve dimostrare altresì che il cessionario quantomeno fosse in grado di percepire (“avrebbe dovuto”) tale inidoneità in base alla sua diligenza specifica quale operatore medio del settore. Più in generale cfr. Cassazione civ., n. 155044/2014 e n. 20059/2014, secondo cui l’Amministrazione finanziaria ha l’onere di provare, in base ad elementi oggettivi, anche presuntivi, che il cessionario o committente si trovasse di fronte a circostanze indizianti dell’esistenza di irregolarità nell’operazione; in tema di frodi carosello vedi Cassazione civ., n. 26464/2018, che richiama n. 9721/2018 e n. 9851/2018.
[6] Così Cass. 12 dicembre 2005, n. 27341; Cass. 6 giugno 2012, n. 9108; Cass. 5 dicembre 2014, n. 25775; Cass. 14 gennaio 2015, n. 428; v. Cassazione civ., sez. V, n. 8919 del 14/05/2020.
[7] V. Cassazione civ., sez. V, n. 8919 del 14/05/2020; Cass. 6 giugno 2012, n. 9108; Cass. 5 luglio 2018, n. 17619.
[8] Cfr. Cass., sez. 5, 19 ottobre 2018, n. 26453; Cass., sez. 6-5, 15 maggio 2018, n. 11873; Cass., sez. 5, 5 luglio 2018, n. 17619; Cass., nn. 28683/15; 5406/16; conformi Cass. 15 maggio 2018, n. 11873; Cass. 5 dicembre 2017, n. 29002; Cass. 14 gennaio 2015, n. 428, secondo cui la mera regolarità della documentazione contabile e l’effettivo pagamento delle fatture non costituiscono elementi dimostrativi idonei in ordine alla buona fede del contribuente, essendo del tutto compatibili con la possibilità che le fatture fossero relative ad operazioni soggettivamente inesistenti, trattandosi di dati e circostanze facilmente falsificabili; nello stesso senso, v. Cass. 3 dicembre 2001, n. 15228; Cass. 10 giugno 2011, n. 12802; Cass. 14 gennaio 2015, n. 428; Cass., sez. 6-5, ord. 15 maggio 2018, n. 11873; Cass. 5 luglio 2018, n. 17619; Cass. 19 ottobre 2018, n. 26453.
[9] Così Cass., 14 settembre 2016, n. 18118.
[10] Cfr. Cass., sez. 5, 14 maggio 2020, n. 8919; Cass., 19 gennaio 2010, n. 735; Cass., 8 aprile 2015, n. 6973.
[11] Tra le tante, Cassazione civ., n. 27554/2018; n. 21953/2007; 9363/2015; n. 20059/2014; Corte giustizia, 6 luglio 2006, C-439/04, 31 novembre 2013, C-642/11
[12] V. Corte Giustizia 4 giugno 2020, n. 430, per cui i principi che disciplinano il regime comune Iva ostano a che, in presenza di semplici sospetti non suffragati dall’amministrazione tributaria nazionale quanto alla effettiva realizzazione delle operazioni economiche che hanno portato alla emissione di una fattura fiscale, al soggetto passivo destinatario di questa fattura venga negato il diritto alla detrazione Iva se non sia in grado di fornire, oltre a detta fattura, ulteriori prove dell’effettiva esistenza delle operazioni economiche realizzate.
[13] V. Cass., 28 febbraio 2019, n. 5873; in tal senso anche Corte di Giustizia UE 22 ottobre 2015, causa C-277/14 PPUK; anche 15 luglio 2015, causa C-159/14 Koela -N; 15 luglio 2015, causa C-123/14 Itales; 13 febbraio 2014„ in causa C-18/13 Maks Pen Eood; 21 giugno 2012, in causa C-80/11 e C-142/11, Mahageben et David; e ancora v. Cass. 19 ottobre 2007, n. 21953; Cass. 11 giugno 2008, n. 15395; Cass. 30 ottobre 2013, n. 24426; Cass. 18 dicembre 2014, n. 26854.
[14] Cfr. Cass. 20 aprile 2018, n. 9851.

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