Dopo circa tre decenni di fenomeni immigratori verso il nostro paese, alcuni punti nodali dell’evento storico vanno recuperati dall’ermeneutica e non solo da una postazione sociopolitica.
Il “lavoro” giudiziario consumato in questi anni nel contesto normativo interno ed internazionale è l’angolo visuale da cui il presente lavoro si propone l’approccio.
E’ opportuna, tuttavia, una necessaria quanto breve premessa che parta dagli annali giudiziari del fenomeno nei giorni della seconda ondata di Covid 19 e degli attentati di Nizza e di Vienna il primo messo in atto da un killer che era in Italia già il 9 ottobre 2020, dopo lo sbarco a Lampedusa portato a Bari e identificato: il tunisino Aouissaoui Bahrain aveva in tasca il foglio rilasciato dalla Croce Rossa1.
1. Riepilogo storico dei viaggi della speranza nel mediterraneo
Era il 7 marzo del 1991 quando l’Italia scoprì di essere terra promessa per migliaia di albanesi. Quel giorno arrivarono nel porto di Brindisi, a bordo di navi mercantili e di imbarcazioni di ogni tipo, 27mila migranti. Fuggivano dalla crisi economica e dalla dittatura comunista in Albania. Consistenti flussi migratori, provenienti dall’est a seguito dello sfaldamento dei blocchi continentali, della caduta del “muro” di Berlino, della fine dell’Unione Sovietica.
L’Albania è stata per diversi lustri il crocevia ed il porto di imbarco di quelle popolazioni in esodo da un’Europa orientale finalmente libera dalla compressioni socio totalitarie.
Oggi le rotte migratorie non interessano quasi più il Canale d’Otranto ma approdano sulla costa della Sicilia frontaliera dell’Africa settentrionale e fanno registrare picchi di immigrazione clandestina verso l’Europa, e l’Italia in particolare, mai visti prima.
Scorrendo indietro l’orologio, tuttavia, si osserva che negli anni novanta e ancora nei primi del duemila, il fenomeno dell’immigrazione clandestina godeva di un’attenzione di caratura prettamente “giudiziaria”, perché l’embrionale problema dell’integrazione degli immigrati non era ancora caratterizzato da alcuna istanza di matrice sociale, razziale o religiosa mentre i partiti non avevano ancora posizioni nettissime su quale dovesse essere la posizione da assumere riguardo al fattore complessivo dell’immigrazione marginando l’intervento essenzialmente agli aspetti amministrativi e penali del fenomeno.
La legge 6 marzo 1998, n. 40 c.d “Turco-Napolitano” – che riordinò la materia dell’immigrazione (prima disciplinata frammentariamente dalla Legge Martelli) a distanza di 7 anni dai primi sbarchi, ricomposta in Testo Unico dalla legge 30 luglio 2002, n. 189, meglio nota come legge “Bossi-Fini”, vide le forze dell’ordine e la magistratura (soprattutto quella pugliese e salentina in particolare) uniche modulatrici del fattore immigratorio nell’ambito delle proprie competenze e, quindi, all’esterno di una visione d’insieme che affrontasse la problematica anche sotto il profilo umanitario di caratura europea in una di una sorta di sciovinismo sottinteso e scontato, condiviso quanto tenue ed avventizio.
All’epoca la magistratura decideva reprimendo le condotte di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina in maniera “netta”, nel senso che la fattispecie penale era agevolmente rinvenibile e definibile in termini concreti in quella dello “scafista” che, alla guida del veloce gommone, attraversava il Canale d’Otranto in 30/40 minuti.
Le cose prendono una piega diversa con lo spostamento dei flussi migratori dal nordafrica, i quali iniziano a generare problematiche di integrazione più vaste ed a coinvolgere non più solo persone provenienti dall’est di una “vecchia Europa”, ma soprattutto popolazioni che da decenni o meglio da secoli fanno parte di un’area continentale diversa in molti sensi, più vicina al medioriente di quanto non lo sia alla civiltà occidentale.
Non è sproporzionato ammettere che il fenomeno migratorio sulle sponde del mediterraneo dalla seconda metà del 2000 in poi ha assunto una dimensione culturale di cui prima sostanzialmente era privo nella sua scarna sostanza di ricerca di una “vita migliore”.
La comparsa delle organizzazioni umanitarie sulle rotte dei migranti testimonia come la concezione dell’aiuto abbia acquisito dei connotati ideologici che hanno spostato la zona di intervento “sul posto”, in una pretesa – indirizzata agli Stati europei – di riconoscimento del dovere di accoglienza dall’esterno, aprendo una pagina del tutto nuova sui diritti dell’uomo che le molte carte internazionali avevano già da tempo stigmatizzato.
Occorre ammettere, tuttavia, che l’entrata in gioco di soggetti giuridici “non governativi” nel mediterraneo ha inevitabilmente contaminato la struttura semplice della repressione di condotte criminali connesse con l’agevolazione dell’immigrazione clandestina.
Non ultimo il dato, tristemente confermato in queste ore, che i porti sono luoghi di imbarco anche di pericolosissime frange terroristiche. La materiale quanto ancestrale impossibilità di rimpatrio dei soggetti non identificabili riduce ad un pezzo di carta il decreto di espulsione cosicché in tempi di coronavirus, sia la sicurezza nazionale che il rischio sanitario, oggi non possono non rappresentare un interesse bilanciabile.
Non è questa la sede adatta per una analisi a tutto campo sull’immigrazione come fenomeno sociologico.
E’ sufficiente l’indagine esegetica sui poteri e le facoltà scaturenti dal dovere di salvataggio in mare di cui le organizzazioni non governative si avvalgono, per scorgere, se esistente, una trama tra la prassi, la legislazione, nazionale ed internazionale, e la giurisprudenza da cui risalire ai beni effettivamente e realmente protetti dall’ordinamento.
La cronaca invece, da parte sua, non può non celebrare il ricordo delle tante vittime dei naufragi – non solo nel canale di Sicilia ma anche molto prima sulle rotte adriatiche del mediterraneo – quando ancora la morte in mare nei “viaggi della speranza” non attenzionava il sussidio navale privato come oggi.
Basti ricordare, ad esempio, che il naufragio della “Kater Rades” il 28 marzo 1997 al largo del canale d’Otranto ad opera della Corvetta militare italiana “Sibilla” con oltre 150 tra morti e dispersi in mare, quasi tutti di nazionalità albanese, non vide l’intervento di alcuna nave di soccorso umanitario oltre quelle militari. Ancora oggi e nonostante una sentenza di condanna passata in giudicato quasi tutti i parenti delle vittime attendono ancora il risarcimento per la perdita dei loro congiunti.
Anni di esperienze drammatiche, comunque ci permettono di estrapolare alcuni dati.
Il flusso immigratorio verso il nostro paese su rotte navigabili si concretizza con l’imbarco delle persone in porto di partenza su natanti di piccole dimensioni rispetto al carico, condotti da uno, due o più “scafisti”. Negli ultimi anni si è registrata sempre più di frequente la presenza di una “nave madre” di supporto ai viaggi oppure con funzione di starter che a poche miglia dalla costa scarica i clandestini su imbarcazioni più piccole.
Gli “scafisti”, siano essi al comando delle imbarcazioni o della “nave madre”, sono perseguibili in Italia per il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina previsto e punito dall’art. 12 D.lgv 25 luglio 1998 n. 286 con pene severissime (sino a trent’anni di reclusione).
Negli anni ’90 e nei primi del duemila la repressione giudiziaria del fenomeno si attuava mediante l’intercettazione dell’imbarcazione da parte dei militari (Guardia Costiera, Guardia di Finanza, Carabinieri, Polizia di Stato, Marina Militare) in prossimità del limite delle acque territoriali, inseguimento del punto radar sino allo sbarco, fermo dei clandestini, trasferimento degli stessi nel Centro di Permanenza ed agevole individuazione – attraverso le dichiarazioni ed i riconoscimenti da parte delle persone a bordo – delle persone al governo del natante con il ruolo di equipaggio e quindi certamente autori della condotta delittuosa.
Le problematiche dell’epoca riguardavano semmai l’enorme numero giornaliero di “gommoni” che battevano le due sponde del basso Adriatico (da Valona in Albania verso tutto il versante costiero della Puglia meridionale e del Salento orientale) e che le Forze dell’Ordine intercettavano solo in numero esiguo. Le disgrazie in mare ed i naufragi erano frequentissimi, molti inediti. La magistratura pugliese e salentina faceva il possibile irrogando severissime sanzioni penali agli “scafisti” catturati.
Il fenomeno immigratorio della “prima fase” si esaurì sino a divenire quasi nullo oggi, grazie ad accordi e collaborazioni internazionali con l’Albania, crocevia dei flussi migratori secondari alla caduta delle dittature dell’Europa orientale. Gli agreements diplomatici permisero l’insediamento di una task force militare ed internazionale direttamente sui luoghi di imbarco (versante costiero di Valona e Durazzo), l’allentamento dei cordoni per il rilascio a visti di ingresso di cittadini extracomunitari regolari, l’allargamento della cittadinanza UE alle popolazioni di diversi paesi dell’est.
Del tutto diverso lo scenario operativo che investe il Canale di Sicilia nella “seconda fase” del fenomeno immigratorio verso l’Italia, caratterizzato da una navigazione su barconi lenti e stracarichi e non su gommoni veloci a cui ben presto si è sovrapposta l’attività di soccorso in mare delle navi di appoggio delle varie Ong di diverse bandiere di Stati Europei che battono le rotte sudoccidentali del Mediterraneo e raccolgono i clandestini alla deriva in mare.
L’intervento delle navi con fini umanitari e di salvataggio ha complicato non poco l’attività repressiva delle condotte di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.
Il recupero delle persone dai “barconi”, realizzato in acque internazionali o molto spesso direttamente in acque libiche e o tunisine, alleggerisce in concreto il lavoro degli scafisti, sia perché costoro possono agevolmente confondersi tra i clandestini (non svolgendo l’equipaggio della nave soccorritrice alcuna indagine immediata indispensabile all’individuazione dei responsabili) ovvero restano a bordo della nave madre ovvero ancora perché alcune volte il recupero delle persone in acque territoriali ed a poche miglia dallo scalo di partenza permette all’equipaggio criminale di tornare indisturbato indietro.
In attesa di una regolamentazione dell’Unione, in Italia il diritto interno segna un passo lento e affannato dal Covid 19, tra inevitabili contrasti politici, a cui non sono certo estranee ed incolpevoli le indecisioni e le incertezze dei partner europei.
E’ del tutto improbabile che il fenomeno di “seconda fase” possa rallentare nonostante le chiusure interne dei paesi europei per la seconda ondata pandemica e i recentissimi fatti di terrorismo fondamentalista islamico.
Forti, infatti, sono le aspettative delle organizzazioni criminali derivanti dal disorientamento degli Stati causa Covid a cui contrafforta l’invece non interrotto e costante soccorso in mare.
Allo studioso del diritto penale non resta che farsi spazio nelle maglie del fenomeno sociale con lo sforzo di rimanere asettico e protetto da influenze sovrastrutturali limitandosi all’analisi della fattispecie incriminatrice ponendola sulla linea sinottica della scriminante dell’adempimento di un dovere (o dello stato di necessità) sicuro che l’approccio interpretativo delle norme sarà di ausilio all’utilizzo degli istituti nel contemperamento delle diverse esigenze costituzionali del rispetto della dignità umana e della sicurezza pubblica nello Stato di diritto.
2. Il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina: fattispecie
Dispone l’art. 12, comma 1 del testo unico sull’immigrazione che “Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, in violazione delle disposizioni del presente testo unico, promuove, dirige, organizza, finanzia o effettua il trasporto di stranieri nel territorio dello Stato ovvero compie altri atti diretti a procurarne illegalmente l’ingresso nel territorio dello Stato, ovvero di altro Stato del quale la persona non è cittadina o non ha titolo di residenza permanente, è punito con la reclusione da uno a cinque anni e con la multa di 15.000 euro per ogni persona.“
Al comma 3 sono opportunamente previsti sensibili inasprimenti di pena nei casi in cui il favoreggiamento sia organizzato a scopo di lucro o comunque caratterizzato da ulteriori aggravanti.
Frutto di un travaglio normativo non di poco conto con numerosissime modifiche, la norma mira a reprimere con fermezza l’immigrazione clandestina.
3. Il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e l’uso delle scriminanti
Si è già detto che l’osservatore non può sottrarsi dal rilievo che il legislatore non sia riuscito nel corso degli anni a realizzare in concreto un sistema armonico di norme che possano intessere un diritto dell’immigrazione complessivo e coerente.
La fattispecie modificata in ultimo nel 2009 fu considerata troppo statica ed astratta nel suo disegno complessivamente rigorista. Autorevole dottrina ritenne il diritto dell’immigrazione un diritto speciale e ad un tempo frammentario, incoerente nelle iniziative legislative2.
Si lamentava che tali caratteristiche del “diritto degli stranieri” avevano spesso indotto l’interprete a valorizzare i principi generali del diritto italiano ed europeo ed a fare uso delle clausole espressive di equità e moderazione, al fine di sfuggire ad una applicazione letterale ma irragionevole della legge.
Emblematico fu, in tal senso, l’opportuno uso fatto dal giudice del merito, ed avvalorato poi dalla Cassazione, dell’art. 54 c.p. All’epoca il caso era quello del genitore che procuri, da sé e senza alcuna complicità esterna, l’ingresso illegale della figlioletta, recandosi immediatamente dai carabinieri per rendere loro noto il fatto.
Tuttavia sul piano del favoreggiamento dell’immigrazione clandestina via mare, la sempre più largheggiante interpretazione – necessitata dall’opportunità di porre rimedio in via giudiziale alla scarsa modulazione del presidio penale posto dal legislatore al fine di contrastare le immigrazioni illegali – ha prodotto nel corso del tempo il risultato, di segno opposto, di limitare eccessivamente la fattispecie incriminatrice ogni qualvolta potesse essere astrattamente invocata la scriminante dello stato di necessità dell’ art. 54 c.p. ovvero quella di cui all’art. 51 c.p.
Ne è conseguito che le organizzazioni criminali transnazionali che trasbordano flussi migratori dal nord Africa, hanno progressivamente affinato il loro know-how al fine di avvalersi, strumentalizzandola, dell’assistenza umanitaria offerta dalle istituzioni pubbliche e soprattutto delle organizzazioni non governative operanti nelle aree di sbarco.
Il metodo consolidato consiste nel far imbarcare su una “nave madre” i migranti per poi trasbordarli3, giunti in acque internazionali, su imbarcazioni più piccole oppure seguire la rotta di quest’ultime a distanza con strumentazioni sofisticate a bordo della “nave madre” per poi sfruttare i protocolli Sar lanciando una richiesta di soccorso4.
L’intervento in mare sulle rotte africane di navi terze con fini umanitari, navigando quasi “di provvista” all’autorità costiera, ha aggravato l’onere di imputabilità della condotta incriminatrice e reso assai arduo individuare la consumazione plurisoggettiva e spaziotemporale della fattispecie quando gli scafisti “passano la palla” alle navi di intervento umanitario, le quali recuperano i clandestini dai barconi in mare aperto senza troppa cura del punto nave, per condurli in luogo ove a loro giudizio ritengono sia garantita assistenza e rispetto dei diritti essenziali, cioè sul nostro territorio.
La prassi applicativa è diventata regola soprattutto a causa del supporto giurisprudenziale garantista, cosicché sempre più rari sono stati gli arresti per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina mentre sempre più si è andata consolidando una prassi di “inimputabilità” (con prodromiche conseguenze sul piano cautelare) dei comandanti delle “navi umanitarie” scontando l’effetto scriminante del soccorso in mare declinabile come adempimento di un dovere o stato di necessità.
Valorizzata l’autorevolezza universalmente indiscutibile del salvataggio in mare qualificato dall’impegno per il riconoscimento dei diritti alla richiesta di asilo e di trattamento umanitario, si è ingolfato il lavoro delle procure e delle forze dell’ordine, le quali tuttavia non sempre hanno ritenuto di essere esentati dall’esercizio della pretesa punitiva dello Stato nei confronti di alcuni comandanti di navi di organizzazioni non governative, allorché, attuato il segmento mancante del fatto materiale, necessitasse il vaglio della effettiva sussistenza di cause di esclusione del dolo.
4. Il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e le sue scriminanti: Il caso della “Cap Anamur5”
Tra i non moltissimi procedimenti penali per concorso in favoreggiamento dell’immigrazione clandestina nei confronti dell’equipaggio di nave-soccorso, spicca per primato cronologico e contenutistico quello che vide imputati il comandante e l’equipaggio della “Cap Anamur” del reato commesso il 12 luglio 2004 per aver compiuto attività diretta a favorire l’ingresso clandestino nel territorio nazionale di cittadini extracomunitari di nazionalità mista, consistita nel trasporto nelle acque territoriali italiane e quindi allo sbarco sul territorio nazionale, di 37 clandestini dopo averli intercettati alla deriva e quindi recuperati, dieci giorni prima in acque incerte e comunque di competenza della Sar maltese o libica.
Nel capo di imputazione la Procura di Agrigento aveva contestato all’equipaggio della Ong tedesca la violazione del presidio penale da ritenersi sovrabbondante sulla causa di non punibilità del dovere di salvataggio in mare, aggravata dall’aver perseguito il “fine di procurarsi un profitto sia diretto che indiretto – anche consistito nella pubblicità e risonanza delle informazioni relative ai fatti per cui è processo – utilizzando la motonave “CAP Anamur.” battente bandiera tedesca nonché prospettando falsamente alle Autorità dello Stato competenti una situazione di emergenza anche sanitaria a bordo della nave”.
E’ interessante tuttavia ripercorrere i passaggi fondamentali della vicenda come ricostruiti dalla sentenza:
Dagli atti del processo risulta, “in data 1 luglio 2004 il Comando Generale della Guardia Costiera, su disposizione del Ministero dell’Interno – Servizio Immigrazione e Polizia di Frontiera, diramava, tramite la Capitaneria di porto, l’ordine di fermare la nave prima che entrasse in acque territoriali italiane così negandole sostanzialmente l’accesso in porto. In sostanza, le autorità governative e marittime italiane venivano a conoscenza: a) dei movimenti della nave che si presentavano, almeno in apparenza alquanto “anomali”, b) del fatto che la Cap Anamur durante i dieci giorni intercorsi tra la data del salvataggio (20 giugno) e quella di comunicazione della data (30 giugno) aveva fatto scalo (di nuovo) a Malta e c) del fatto che, ciononostante, il comandante S. non aveva comunicato alle autorità maltesi la presenza dei 37 naufraghi a bordo. Inoltre, nel momento in cui, a livello politico – diplomatico, le autorità di governo italiana e tedesca prospettavano una possibile competenza maltese, le autorità de La Valletta, a loro volta, respingevano tale soluzione negando sostanzialmente la propria competenza.
Nel tentativo di risolvere la questione intervenivano, anche salendo a bordo della nave, diverse persone”.
Questa la vicenda in sintesi.
Per il Tribunale di Agrigento: “Il fatto commesso degli imputati …, idoneo ad integrare la fattispecie criminosa contestata in rubrica sotto il profilo dell’elemento oggettivo del reato, trova, tuttavia, giustificazione nella scriminante di cui all’art 51 c.p. nella specie di adempimento di un dovere imposto da una norma di diritto internazionale”.
La sentenza specificava alcuni cruciali aspetti applicativi ricavabili dalle disposizioni internazionali quali fonti di esclusione dell’antigiuridicità delle condotte contestate all’equipaggio dalla Cap Anamur”, ritenendo che:
“Con l’entrata in vigore (1 luglio 2006) degli emendamenti all’annesso della Convenzione SAR 1979 e alla Convenzione SOLAS 1974 (e successivi protocolli) nonché con le linee giuda adottate in sede IMO (International Maritime Organization) è stato definito chiaramente il concetto di place of safety (località di sicurezza). Si fa riferimento alla risoluzione MSC (Maritime Safety Committee) 155 del 20 maggio 2004, alla risoluzione MSC 153 del 20 maggio 2004 nonché, per quanto riguarda il requisito di place of safety, alla risoluzione MSC 167 adottata sempre in data 20 maggio 2004 (Guidelines on the treatment of persons rescued at sea). Il concetto place of safety è definito come “la località in cui le operazioni di soccorso si considerano concluse e dove la sicurezza dei sopravvenuti o la loro vita non sia minacciata; dove le necessità umane primarie (cibo, alloggio, servizi medici) possono essere soddisfatte e possa essere organizzato il trasporto dei sopravvissuti nella destinazione vicina o finale“.
“Le linee – guida stabiliscono, inoltre, che “lo Stato responsabile per la regione SAR in cui sono stati recuperati i sopravvissuti deve occuparsi di fornire un luogo sicuro o di assicurare che tale luogo venga fornito“. In definitiva, le linee guida chiariscono espressamente che la nave soccorritrice costituisce soltanto un luogo di ricevimento dei naufraghi di natura temporanea e che la nave debba essere sollevata dall’incombenza insistendo in modo particolare sul ruolo attivo che lo Stato costiero deve assumere per liberare la nave soccorritrice dal “peso” di gestire le persone soccorse, “peso” che, anche in base ad una valutazione di comunissimo senso, non è indifferente in termini di mantenimento, vitto, assistenza medica, etc.
Tenute presenti le considerazioni suddette, può passarsi alla valutazione della condotta posta in essere dagli imputati S. e B. successivamente al recupero dei naufraghi. Anzitutto, va evidenziato che, una volta esclusa la Libia, Malta non costituiva il porto più vicino al luogo del salvataggio essendo tale isola di Lampedusa (Italia). A prescindere da tali circostanze, il capitano S. ha riferito di essere a conoscenza dell’esistenza, a quel tempo, di un trattamento non ortodosso riservato ai migranti che giungevano in territorio maltese … non risulta che la Libia abbia ratificato la Convenzione di Ginevra sulla status dei rifugiati del 28 luglio 1951 (ratifica, invece, dall’Italia con legge 722/1954), né che abbia preso parte alle principali Convenzioni internazionali in materia di diritti umani (Patti Internazionali sui diritti civili e politici, Convenzione ONU contro la tortura o altere pene o trattamenti crudeli, inumani, o degradanti). … sulla base di una visita effettuata a Malta in data 24 marzo 2006 da una delegazione della commissione per le libertà civili, la giustizia e gli affari interni dell’Unione Europea, è emerso che le condizioni di vita dei migranti e dei richiedenti asilo politico nei centri di detenzione amministrativa di Malta – benché paese membro dell’Unione Europea e aderente alle suddette Convenzioni internazionali – erano (omissis)
Va considerato un ulteriore aspetto. Ai migranti doveva essere, al contempo, garantito il diritto di essere sottoposti alle verifiche amministrative minime necessarie a stabilirne l’identità e la provenienza nonché ad accertare, anche a seguito della (prospettata) presentazione delle domande di asilo politico, la esistenza (eventuale) di presupposti che avrebbero impedito il respingimento e garantito protezione nel rispetto delle norme del diritto
La questione relativa alla individuazione dello Stato competente ad esaminare le domande di asilo – la cui presentazione, peraltro, è una circostanza meramente eventuale del fatto contestato – opera su un piano nettamente separato rispetto a quello relativo al riconoscimento della esistenza dei presupposti dell’obbligo giuridico di trasportare i naufraghi in una località più vicina e sicura, previa individuazione di essa da parte del comandate della nave … la valutazione della sussistenza del reato di cui trattasi prescinde dall’esistenza di un provvedimento di diniego di attracco, dalla sua legittimità e dal fatto che i soggetti agenti lo abbiano o meno aggredito in quanto, è di tutta evidenza, che l’ordine di non entrare in acque nazionali e di non sbarcare in un porto italiano (atto amministrativo emanato a seguito della domanda di accosto) non costituisce un presupposto dell’illecito penale contestato né tanto meno un elemento costitutivo della fattispecie criminosa di cui all’art.12 Dlvo 286/1998. Si può ben prescindere pertanto dal sindacare la legittimità del divieto di fare ingresso in acque nazionali impartito dalle autorità marittime italiane alla motonave Cap A.”.
La sussistenza della scriminante, invero, non può essere negata soltanto sulla base del fatto che S. e B. abbiano voluto gestire autonomamente la vicenda omettendo l’immediata comunicazione alle autorità e arrogandosi la competenza – che certamente non spettava loro – di risolvere la situazione sotto ogni profilo.
L’assoluzione pronunciata nel 2009 dal Tribunale di Agrigento a cinque anni dai fatti, aprì la porta ad una prassi garantista verso le condotte in mare delle Ong che polverizzò le stesse iscrizioni a notizie di reato dei carichi di clandestini in mare effettuati dalle navi con scopi umanitari.
Nella sentenza viene stigmatizzato il principio secondo cui il comandante di una nave che proceda al trasbordo di migranti naufraghi e li conduca in salvo sul territorio italiano non risponde del delitto di concorso in favoreggiamento dell’immigrazione clandestina (art. 12, D.Lgs. n. 286/1998): il fatto non è antigiuridico perché è commesso in presenza della causa di giustificazione dell’ adempimento di un dovere (art. 51 c.p.), la cui fonte risiede in norme del diritto internazionale recepite nell’ordinamento italiano.
La decisione del Tribunale di Agrigento rappresenta la “pietra miliare” della giurisprudenza riguardante le condotte di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina in cui si realizzi un apporto causale di organizzazioni umanitarie in un ambito plurisoggettivo di condotte.
Essa segna il passaggio verso l’automatismo immunitario del soccorso in mare, giustificato a priori dall’adempimento di un dovere parallelo ed osmotico alla fattispecie, sancito dal diritto internazionale ed interno.
5. Le criticità e il riverbero della sentenza “Cap Anamur”
La sentenza del Tribunale di Agrigento costituisce un archetipo per la quasi totalità dei successivi (per vero pochi per lo meno rispetto alla vastità del fenomeno) arresti giurisprudenziali in materia di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina via mare in cui la fattispecie di reato registri il contributo causale di navi con scopi umanitari.
Al contrario di quanto si possa immaginare non un think tank giurisprudenziale ma solo alcuni passaggi di quel processo saranno decisivi per consolidare la prassi attuativa dell’aiuto ai migranti in mare che registra anche nelle ultime ore6 l’ennesima assoluzione dell’equipaggio di una Ong a fronte dell’epidemia da Covid, transiti di terroristi e il collasso dell’hot spot di Lampedusa.
Gli atti del processo del 2009 avevano evidenziato con certezza che le operazioni di salvataggio in mare dei migranti erano state effettuate il 20 giugno mentre il Capitano della nave soltanto il 30 giugno successivo dichiarava alle autorità italiane l’avvenuto recupero di 37 migranti, i quali non erano sudanesi come dichiarato e vi era sta una forte partecipazione mediatica con il coinvolgimento di giornalisti, politici, avvocati e prelati.
Se i movimenti effettuati dalla Cap Anamur nel periodo temporale prossimo al salvataggio non furono sintomatici di un’operazione di “pattugliamento” della motonave nelle acque del Mar Mediterraneo, gli anni a venire hanno dimostrato che le Ong battono costantemente il Canale di Sicilia.
Le prove che il recupero dei clandestini avvenne in zona SAR di Malta il 20 giugno era ricavabile delle stesse dichiarazioni del comandante della nave-soccorso il quale offrì una valutazione soggettiva sugli standard di sicurezza e condizioni di vita offerti dal governo maltese ai migranti eventualmente richiedenti asilo, circostanza che tuttavia non era sindacabile dal giudice italiano. Malta, peraltro, già all’epoca, era membro dell’Unione Europea nonché aderente dal 1971 alla Convenzione di Ginevra del 1951 sullo status di rifugiato.
La nave tedesca indugiò per ben 10 giorni tra le sponde del Mediterraneo meridionale senza comunicare ad alcuno la presenza a bordo dei clandestini recuperati ed arrogandosi il diritto di scegliere, in modo del tutto autonomo, discrezionale e volutamente determinando quale dovesse essere la “place of safety”.
Secondo la procura di Agrigento gli imputati disattesero le disposizioni delle convenzione SAR e SOLAS che disciplinano la materia attraverso la ripartizione di zone di mare entro le quali si attribuiscono agli Stati la competenza e la responsabilità del salvataggio in mare nella sua completezza compreso il luogo sicuro di approdo.
Di fatto gli imputati si erano surrogati in compiti di alta amministrazione che non gli competevano in quanto spettanti alle autorità preposte, in un ambito politico fatto di delicati equilibri internazionali e sfruttando le tensioni tra Italia e Malta, in tal modo favorendo un ingresso illegale in Italia di immigrati clandestini che avrebbero dovuto essere sbarcati in luogo di soccorso in altro paese.
L’equipaggio tra l’altro aveva deciso deliberatamente di non dare notizia del recupero degli immigrati/naufraghi per ben 10 giorni ad alcuno dei Centri nazionale di coordinamento del soccorso marittimo (MRCC) previsti dall’IMO (Organizzazione Internazionale Marittima) che in conformità al disposto delle convenzioni SAR e SOLAS7 richiamate in sentenza distribuisce i compiti di salvataggio in mare nella zona Sar a ciascuno Stato assegnata8 .
A giustificazione del fatto di non avere sbarcato i naufraghi a Malta pur avendovi fatto scalo e di non aver avvisato le autorità maltesi della presenza a bordo di costoro, gli imputati riferivano di aver ritenuto che l’isola non costituiva il porto più vicino al luogo del salvataggio essendo tale l’isola di Lampedusa (Italia).
La sentenza trascura che la circostanza avanzata dai componenti dell’equipaggio non escludeva l’obbligo sopra citato di dare notizia alle MRCC responsabili della zona SAR le quali operano sussidiariamente: Va anche detto che gli accordi prevedono che il mancato intervento dell’autorità competente allertata determina l’intervento dell’altra.
Per la procura il dubbio degli imputati era irrilevante poiché le norme prevedono, non solo il rispetto dei diritti fondamentali dei migranti ma anche la collaborazione delle autorità libiche o maltesi al salvataggio in mare ovvero, in mancanza, quella della MRCC italiana avrebbe tra l’altro meglio consentito allo Stato Italiano di sollecitare le incombenze degli altri Stati coinvolti dall’obbligo di salvataggio e recupero.
La MRCC che riceve l’avviso è tenuta, infatti, a diffonderlo e a coordinare le ricerche e i soccorsi, allertando ogni mezzo in navigazione nell’area coinvolta e, se occorre, ordinandogli di intervenire. Nel frattempo, se l’evento si svolge al di fuori della SAR di sua pertinenza, si mette in contatto con la MRCC competente, perché assuma il coordinamento delle attività.
Queste disposizioni (che saranno meglio analizzate più avanti) furono del tutto disattese dagli imputati.
Tuttavia il Tribunale, il quale aveva effettuato un preciso, dettagliato e puntuale richiamo all’intero complesso di protocolli e norme pattizie che attribuiscono agli Stati la responsabilità del coordinamento delle operazioni di salvataggio in mare e il compito del reperimento del luogo sicuro (“Place of safety”), assolse gli imputati con una decisione ove risalta la perdita di nitidezza delle regole applicative e lo sconfinamento contenutistico del dovere incombente sul comandante di una nave privata impegnata in operazioni di soccorso in mare.
Dai fatti – esattamente riepilogati in sentenza – emergeva che l’articolazione del dovere di salvataggio in modo assolutamente soggettivo effettuato dall’equipaggio della nave Cap Anamur e verso una direzione assolutamente estranea alla norma extrapenale, qualificava la condotta come azione arbitraria collocabile oltre i chiari confini della causa di giustificazione9.
Il Tribunale di Agrigento, invece, sembra quasi propendere verso una particolare rappresentazione e volizione degli agenti i quali, rispetto al complesso delle norme applicabili, bene fanno a considerare le stesse in una visione universalistica, manifestando con la pronuncia una larvata ma efficace adesione al concetto di c.d. “scriminante culturale”10, per cui l’esubero di condotta dell’equipaggio sarebbe riconducibile ad un atto di sottintesa umanità ricavabile da criteri essenziali di civiltà riconducibili ai diritti fondamentali della persona come sanciti dalle costituzioni e dalle carte internazionali della civiltà occidentale, non considerando tuttavia che il dovere “culturale” non trova albergo nell’ordinamento giuridico che indiscutibilmente da priorità alle norme nella loro esatta dimensione in virtù del principio di legalità.
Inoltre, se certamente non è pensabile che il Tribunale abbia inteso travalicare la giurisdizione del giudice nazionale ponendo come decisiva l’inosservanza delle regole di un trattato da parte di uno Stato (Malta) che vi abbia aderito sovrapponendo il proprio giudizio a quello di strumenti ed istituzioni (Arbitrato, Corti di giustizia etc.) di giurisdizione internazionale riconosciuti dagli stessi paesi membri del trattato o comunque dalla comunità internazionale, tuttavia nella sentenza si ha la netta impressione di leggere una concreta quanto sottintesa “condanna” della Libia e di Malta per il mancato rispetto dei trattati internazionali che tutelano la dignità umana, il rispetto dei diritti ed il lo status di rifugiato. Tralasciando il primo dei due paesi, del secondo si dice apertamente in sentenza che le condizioni di vita dei migranti e dei richiedenti asilo politico nei centri di detenzione amministrativa sulla base di una visita effettuata in data 24 marzo 2006 da una delegazione della commissione per le libertà civili, la giustizia e gli affari interni dell’Unione Europea erano “omissis” (testualmente dalla pubblicazione della sentenza). La sentenza ritiene che tale circostanza sarebbe stata confermata dalla dichiarazione dell’imputato, il capitano della nave, il quale riferì di essere a conoscenza dell’esistenza, a quel tempo, di un trattamento non ortodosso riservato ai migranti che giungevano in territorio maltese.
Orbene Malta è membro dell’Unione Europea e firmatario della Convenzione di Ginevra del 1951.
Non risulta che il governo maltese sia stato mai condannato dalla CGUE del Lussemburgo o anche dalla CEDU per violazione delle norme umanitarie nel trattamento dei migranti da essa sottoscritte nel trattato istitutivo dell’Unione o in quello di Ginevra.
Escluso dunque che il Tribunale di Agrigento abbia inteso dirimere una controversia tra Stati, potrebbe semmai essere oggetto di esame se da parte del giudice nazionale sia stata rilevata una antinomia dei trattati con nome interne, sicché più che un esubero di giurisdizione dovrebbe considerarsi un caso di “disapplicazione” delle norme pattizie in contrasto con l’ordinamento giuridico.
Al riguardo va detto che Corte costituzionale, ferma la centralità del suo controllo sull’interpretazione della fonte pattizia, ha sempre confermato11 il principio enunciato dalle sentenze gemelle del 200712 secondo cui solo il giudice costituzionale può vagliare la compatibilità della norma interna con la norma pattizia, mentre al giudice comune è lasciato solo il compito di tentare un’interpretazione conforme, essendogli preclusa la disapplicazione13 e 14.
A ben vedere il giudice nazionale non rinvenne alcuna antinomia tra la norma interna (la scriminante di cui all’art. 54 dell’adempimento di un dovere) e le norme pattizie che regolano il salvataggio ed il recupero in mare di naufraghi. Dal testo della sentenza di evince al contrario il preciso e completo richiamo al vigente diritto pattizio mentre non si ravvisano passaggi in cui il Tribunale denunci il contrasto dei trattati e protocolli con i principi ispiratori delle norme interne di esclusione dell’antigiuridicità delle condotte, tanto è vero che non si parla di rimando alla Consulta né di un caso di necessaria disapplicazione.
Invero si tratta solo di verificare – dettagliando i corretti richiami normativi rinvenibili nella stessa sentenza – se la pronuncia in esame abbia dato esatta applicazione alle norme pattizie richiamate, le quali, in virtù del disposto del nuovo testo del primo comma dell’art. 117 Cost.15, costituiscono diritto vigente peraltro di rango superiore alla legge nazionale.
L’analisi va svolta a valle di disposizioni come l’art. 33 della convenzione di Ginevra o dell’art. 19 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (Protezione in caso di allontanamento, di espulsione e di estradizione) o di pronunciamenti della Corte europea dei diritti dell’Uomo sul divieto di respingimento secondo la quale quest’ultimo costituisce un principio di diritto internazionale consuetudinario16, pilastri su cui si fonda il diritto internazionale dei rifugiati.
E’ importante evidenziare che la sentenza parrebbe farne un richiamo implicito il quale tuttavia risulta inconferente perché collocato in un ambito argomentativo a sostegno della tesi di privatizzazione del divieto stesso, invece posto dall’ordinamento internazionale innegabilmente a carico degli Stati (e dei loro apparati) il cui onere istituzionale non può costituire oggetto di indagine giudiziaria essendo l’extraneus ovviamente privo di ogni potere applicativo in merito. Seguendo il ragionamento del giudice si arriverebbe alla abnorme conclusione che il diritto internazionale, nel sistema interdisciplinare della navigazione e del rispetto dei diritti umani, avrebbe riconosciuto una situazione giuridica soggettiva di interesse al rispetto del divieto di respingimento. E’ agevole constatare che anche se per assurdo così fosse la riconosciuta situazione soggettiva di interesse, da una parte non potrebbe mai assurgere al livello di dovere eseguibile dal privato né, dall’altra, potrebbe dirsi munita dell’idoneità scriminante tipica dell’esercizio di un diritto soggettivo proprio17.
Sono invece le disposizioni pattizie che regolamentano l’obbligo di salvataggio in mare e che si applicano ad ogni singolo natante anche privato, tutte puntualmente richiamate dalla sentenza, a dovere essere oggetto della verifica di corretta lettura.
Ricostruendo la disciplina si osserva che in base alla c.d. “Montego Bay” (Convenzione UNCLOS) ogni Stato può obbligare i comandanti delle navi che battono la sua bandiera – sempre che ciò sia possibile «senza mettere a repentaglio la nave, l’equipaggio o i passeggeri » – a prestare assistenza a naufraghi trovati in mare od a portarsi immediatamente in soccorso di persone in pericolo quando si abbia notizia del loro bisogno di aiuto (art. 98,1). Il capitolo V della Convenzione SOLAS riporta regole generiche sull’assistenza e salvataggio in mare conformemente al carattere commerciale dell’accordo che si applicano a qualsiasi viaggio e quindi a qualsiasi nave e, diversamente da quanto dichiarato nel primo capitolo, si disciplina il mantenimento dei servizi meteorologici per le navi, nonché il mantenimento dei servizi di ricerca e di soccorso.
Peculiari e specifici sono invece gli obblighi del punto 3.1.9 della Convenzione SAR (Search and rescue) di Amburgo del 1979 che dispone: «Le Parti devono assicurare il coordinamento e la cooperazione necessari affinché i capitani delle navi che prestano assistenza imbarcando persone in pericolo in mare siano dispensati dai loro obblighi e si discostino il meno possibile dalla rotta prevista, senza che il fatto di dispensarli da tali obblighi comprometta ulteriormente la salvaguardia della vita umana in mare. La Parte responsabile della zona di ricerca e salvataggio in cui viene prestata assistenza si assume in primo luogo la responsabilità di vigilare affinché siano assicurati il coordinamento e la cooperazione suddetti, affinché i sopravvissuti cui è stato prestato soccorso vengano sbarcati dalla nave che li ha raccolti e condotti in luogo sicuro, tenuto conto della situazione particolare e delle direttive elaborate dall’Organizzazione marittima internazionale (Imo). In questi casi, le Parti interessate devono adottare le disposizioni necessarie affinché lo sbarco in questione abbia luogo nel più breve tempo ragionevolmente possibile.». Secondo il Glossario del mare, pubblicazione ufficiale del Ministero della Difesa, consultabile on-line, “in assenza di accordi di delimitazione i limiti delle zone SAR sono concordati in ambito IMO, dunque a livello internazionale e non comunitario. Per quanto riguarda il Mar Mediterraneo nel corso della Conferenza IMO di Valencia del 1997 si è provveduto ad approvare un «General Agreement on a Provisional SAR Plan» in cui sono stabiliti i limiti delle zone SAR mediterranee. Un’eccezione in questo processo di definizione concordato delle zone SAR mediterranee è stata quella di Malta. La zona SAR stabilita unilateralmente da questo Paese, come risultante dal Global SAR Plan elaborato dall’IMO con l’intento di dare informazioni sulle organizzazioni nazionali dei servizi responsabili in materia SAR, ha un’estensione vastissima che coincide con la «Flight Information Region» (FIR).
Sempre secondo il Glossario del mare, l’obbligo di cui all’art. 98 della UNCLOS (v. supra) prescinde dal regime giuridico della zona di mare in cui avviene il soccorso nel senso che può esplicarsi tanto nelle acque internazionali come nella zona economica esclusiva o nella zona contigua di uno Stato diverso da quello di bandiera. Il soccorso a persone o navi in pericolo è altresì possibile nelle acque territoriali straniere (UNCLOS 18, 2) come deroga al principio del «passaggio continuo e rapido» previsto dal regime del transito inoffensivo, ferma restando la competenza esclusiva dello Stato costiero sia per il coordinamento dell’operazione sia per l’intervento di mezzi, quali rimorchiatori, specificatamente adibiti a prestare assistenza a navi in difficoltà.
Secondo le linee guida sul trattamento delle persone soccorse in mare adottate nel maggio del 2004 dal Comitato marittimo per la sicurezza – citate dalla sentenza – che emendano le convenzioni Sar e Solas, “il governo responsabile per la regione Sar in cui sono stati recuperati i sopravvissuti è responsabile di fornire un luogo sicuro o di assicurare che tale luogo venga fornito”. Secondo le stesse linee guida “un luogo sicuro è una località dove le operazioni di soccorso si considerano concluse e dove la sicurezza dei sopravvissuti o la loro vita non è più minacciata; le necessità umane primarie (come cibo, alloggio e cure mediche) possano essere soddisfatte; e possa essere organizzato il trasporto dei sopravvissuti nella destinazione vicina o finale”.
Verificato l’esatto richiamo del giudice agrigentino alle norme internazionali vigenti la domanda è se sia rinvenibile una norma giuridica che abbia autorizzato o addirittura imposto ad un ente non governativo o a un privato di scegliere di propria iniziativa (e alle volte raggiungere con il proprio mezzo navale) il “luogo sicuro” di approdo di migranti salvati in mare. La risposta è inevitabilmente negativa.
Nessuna norma consente al privato di realizzare l’approdo finale in piena autonomia ed al di fuori di un sovrastante coordinamento della autorità preposta (MRCC).
Le operazioni di salvataggio possono – ed anzi nel caso di vicinanza e prossimità al natante in difficoltà – devono essere effettuate dal privato, ma con l’immediato obbligo di quest’ultimo di allertare immediatamente l’autorità di vigilanza costiera dello Stato responsabile della zona Sar di sua competenza.
Né varrebbe obiettare, come è dato leggere nella sentenza, che alcuni Stati come Malta, Libia o Tunisia non rispondono alle chiamate di soccorso. E’ sancito dalle norme che le varie MRCC di riferimento devono lavorare in collaborazione tra loro e se l’appello non è raccolto (come in effetti spesso accade) non vi è dubbio che la autorità costiera italiana (IMRCC) collabora o addirittura surroga le sue omologhe libiche e maltesi e se allertata ha il dove di accorrere ed effettivamente comunque accorre a supporto delle operazioni di salvataggio e recupero dei naufraghi assumendo il comando delle operazioni.
Pertanto il soggetto privato, non informando immediatamente la IMRCC in caso intercettazione e recupero di naufraghi in mare, commette una gravissima violazione delle disposizioni regolatrici della navigazione di sicurezza e salvataggio in mare.
Non un dovere, dunque, ma anzi una gravissima trasgressione quella di non trasferire immediatamente le competenze alle autorità preposte in primo luogo ed eventualmente a quelle italiane sussidiarie per la ricerca di una Pos (“Place of safety”).
L’aver gestito autonomamente la vicenda omettendo l’immediata comunicazione alle autorità e arrogandosi la competenza – che certamente non gli spettava, come si legge nella stessa sentenza – di tutta l’operazione, non solo di salvataggio ma anche di approdo dei naufraghi, espose il comandante e l’equipaggio della Cap Anamur ad una condotta stigmatizzata dal carattere di offensività tipica della fattispecie penale materiale e soggettiva di concorso in favoreggiamento ed agevolazione dell’ingresso illegale nel territorio dello Stato di immigrati irregolari, non coperta da alcuna causa di esclusione dell’antigiuridicità, meno fra tutte quella dell’adempimento di un dovere, i cui contenuti e limiti furono del tutto travalicati dagli imputati.
Non ha pregio giuridico poi sostenere – come è dato leggere nella sentenza – che Malta non costituiva il porto più vicino al luogo del salvataggio essendo tale isola di Lampedusa (Italia) perché non fu mai chiaro dove e quando erano stati recuperati i migranti, mentre, in ogni caso, il reclamo di un’esatta distribuzione delle competenze tra autorità amministrative dei diversi Stati sarebbe stata attribuzione tipica ed esclusiva dell’autorità italiana, la quale andava immediatamente allertata anche eventualmente in caso di mancata risposta all’appello da parte delle MRCC ritenute diversamente competenti nel rispetto delle norme internazionali ed interne.
Secondo i giudici di Agrigento tuttavia “nell’ambito della normativa di diritto internazionale sopra richiamata… gli imputati, ritenendo che la Libia (e Malta) non costituissero luoghi sicuri ove sbarcare i 37 naufraghi/migranti e decidendo in ragione della posizione ove veniva il soccorso, di trasportarli in territorio italiano, hanno agito nella esecuzione di un dovere fondamentale imposto da una norma di diritto internazionale o – quantomeno – nella ragionevole persuasione di trovarsi nelle condizioni di fatto che imponevano l’adempimento del dovere tramite le modalità esecutive poste in essere”.
Si è già detto che il “dovere fondamentale” a cui fa riferimento il pronunciamento del Tribunale risulta sproporzionatamente dilatato. Dalla lettera delle norme pattizie si ricava agevolmente che l’obbligo del privato di salvataggio in mare si esaurisce con le operazioni di soccorso e recupero cui, contestualmente, o al massimo immediatamente dopo, segue l’altro e sotteso obbligo – l’unico ricavabile – di comunicare la notizia del soccorso alle autorità, le sole competenti e soprattutto responsabili della zona Sar in cui è avvenuto il recupero ed eventualmente di quelle limitrofe, in caso di inottemperanza di alcuno alla chiamata. Individuare un dovere più ampio sino a concedere al comandante della nave privata la discrezionalità nella scelta della “Place of safety” equivale a riconoscere rilevanza normativa all’opinione soggettiva, nei termini della menzionata “scriminante culturale”.
Non solo. Ammettere una lettura estensiva dell’obbligo di salvataggio sino a ricomprendere nei suoi confini anche la conduzione dei migranti sino al “luogo sicuro” significherebbe svuotare di contenuto lo stesso significato di “Place of safety” come concepito dallo stesso diritto internazionale.
A ben vedere si tratta di sottrarre la nozione stessa del dato – che è naturalistico e al contempo giuridico formale (un luogo sicuro ove sono garantiti i limiti essenziali di sopravvivenza ed i diritti di umana dignità) – da criteri oggettivi ricavabili necessariamente dal sistema ordinamentale riconosciuto sia al livello nazionale ma anche e soprattutto sovranazionale, per offrirlo alle scelte dal singolo a cui si concede il potere/dovere di legittimazione di strumenti, beni e servizi realizzati dall’autorità nell’esercizio della attribuzione istituzionale tipica di attuazione delle norme di azione, aprendo le porte ad una sorta di visione relativista e soggettivista della amministrazione della cosa pubblica.
Infine si aggiunga che la lettura testuale della norma (par. 3.1.9 della convenzione Sar, peraltro leggersi in relazione anche all’art. 19 comma 2 della Convenzione Unclos) facente parte del nostro ordinamento in virtù dell’art. 117 Cost., non consente interpretazione estensiva (“in claris non fit interpretatio” secondo quanto disposto dall’art. 14 delle preleggi.
Non convince poi la modulazione della sentenza con cui si scala verso la secondaria osservazione che gli autori della condotta hanno agito nella piena convinzione di soddisfare il diritto di derivazione sovranazionale di ciascun essere umano alla tutela della dignità minima, sicché la linea di confine del dovere di salvataggio in mare si allargherebbe sino ad una legittima pretesa di garanzia che i migranti siano effettivamente condotti in una Pos “territoriale” ove quella tutela sia effettiva e certa. L’organizzazione in altri termini avrebbe mediato la legittima pretesa dei migranti al “luogo sicuro” esercitandola per loro conto.
Si è già parlato della non sempre netta distinzione tra adempimento del dovere di salvataggio del privato ed esercizio per conto terzi di diritti umani, rinvenibile sia sullo sfondo che in diversi passaggi degli apparati motivazionali della sentenza, la quale fa sì che la linea di confine tra esercizio di un diritto o adempimento di un dovere degli agenti non appaia del tutto netta ma anzi piuttosto sbiadita.
Osservando da altro angolo visuale non può essere messo in dubbio che il pronunciamento in esame abbia in via sussidiaria ravvisato la ricorrenza della scriminante putativa di cui all’art. 59 comma 4 c.p.
Benché la motivazione ne faccia un richiamo solo subliminale (“La sussistenza della scriminante, invero, non può essere negata soltanto sulla base del fatto che S. e B. abbiano voluto gestire autonomamente la vicenda omettendo l’immediata comunicazione alle autorità e arrogandosi la competenza – che certamente non spettava loro – di risolvere la situazione sotto ogni profilo”) il riferimento del giudice alla legittima convinzione degli imputati di agire nell’esercizio del diritto/dovere di condurre i migranti sino al Pos “territoriale” è abbastanza netto.
La ricorrenza della scriminante putativa nell’ipotesi di adempimento di un dovere non è questione da potersi liquidare a cuor leggero.
La complessità del tema in esame è rintracciabile nella dottrina, fortemente divisa sulla validità dell’errore scusabile che cada sulla norma extrapenale integrante la scriminante18.
In linea di massima si può quantomeno convenire che l’errore sugli elementi normativi della fattispecie extrapenale integrante la scriminante (“ciò che non può essere pensato se non sotto la logica presupposizione di una norma”, Eglish) non escluda il dolo.
Interessante poi è il pensiero autorevolmente espresso in dottrina in cui si fa riferimento al concetto di “proceduralizzazione delle scriminanti”, fenomeno sempre meno raro nell’ordinamento soprattutto quello di derivazione internazionale19.
Si sottolinea che le scriminanti conferenti poteri all’autorità pubblica e in special modo alle forze di polizia presentino dei caratteri di delimitazione che in qualche modo rendano soggetto a regole formali l’esercizio legittimo di quei poteri attraverso una serie di condizioni.
Fermo restando che le delimitazioni pattizie sopra esaminate siano più sostanziali che formali, in tali casi occorre comunque verificare quanto il grado di rigidità di quelle delimitazioni possa compromettere l’equilibrio degli interessi in gioco.
In altri termini non si deve fare altro che individuare l’angolazione normativa degli aspetti procedurali della fattispecie extrapenale richiamabile, la quale unica rappresenta il giusto equilibrio tra i diversi beni protetti.
In tal caso ovviamente la rigidità procedurale non sarà estranea al precetto e, non investendo aspetti “fisici” che possano alterare la rappresentazione del protocollo imposto, l’errore su di essa comprometterà sempre il doveroso adempimento delle prescrizioni.
Per la giurisprudenza la questione della riconoscibilità della scriminante si riduce a ché l’agente creda di trovarsi in una situazione che, se effettivamente esistente, integrerebbe gli elementi della causa di giustificazione, mentre l’errore non può consistere nell’attribuire al diritto stesso una estensione maggiore di quella riconosciutagli dall’ordinamento, configurandosi, in tal caso, un errore sul diritto20.
Tirando le fila, il par. 3.1.9 della Convenzione SAR non sembra lasci spazi in cui il discrimine dell’intelletto medio possa ritenere di muoversi in ambiente “naturalistico” quando disciplina i compiti delle Parti (intendendo con l’inciso le autorità statali) attribuendo loro la responsabilità amministrativa, quando non anche politica, del compimento finale delle operazioni di salvataggio – in esso compresa la ricerca di un Pos “territoriale” – ancorché esse abbiano avuto una matrice, casuale o vocativa, privata.
Non era rinvenibile nei fatti rievocati in sentenza alcun dato naturalistico che potesse generare putatività su un dovere, sancito da norme pattizie, limitato al recupero dei naufraghi ed allertamento delle autorità che si sia esteso sino alla navigazione in un porto ritenuto soggettivamente sicuro in acque Sar di uno Stato piuttosto che in quelle di un altro.
Gli imputati non sono stati indotti dalla situazione (recupero dei naufraghi) in un errore di fatto, né la lettura delle norme (par. 3.1.9 conv. Sar) potrebbe mai generare un errore scusante (errore di diritto determinato da errore sul fatto) del reato di agevolazione dell’immigrazione clandestina determinato da una rappresentatività alterata del privato che lo conduca sino allo sbarco dei naufraghi/migranti ad una Pos; è veramente difficile ipotizzare in concreto circostanze di fatto che possano indurre il privato nell’errore in procedendo nella sequenza della distribuzione dei compiti di soccorso in mare (diversamente ragionando risulterebbe scusabile anche la condotta del comandante di un lussuoso “yacht da diporto” che decidesse di condurre dei migranti recuperati in mare sulla costa italiana senza inviare alcun messaggio di allarme dai sistemi di bordo o dal cellulare).
L’equipaggio esperto e preparato al salvataggio in mare poteva e doveva conoscere (e non solo per grandi linee) il quadro normativo sopra delineato di contorno all’evento, sicché l’elemento soggettivo degli agenti era delimitato entro i confini di un preciso dovere imposto da norme giuridiche entro la cui conoscibilità (ignorantia legis non excusat) nessun rilievo giuridico possono avere i loro seppur meritevoli intenti finali e ultimi21 salvo a dover riconoscere efficacia scusante nell’ordinamento alla citata “scriminante culturale”.
6. L’evoluzione della giurisprudenza dopo la sentenza Cap Anamur
La sentenza “Cap Anamur” è il primo varco di esenzione del dolo di concorso nel reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina che altre pronunce intraprenderanno subito dopo. Gli apporti causali saranno da ora in poi svincolati, dopo il recupero dei naufraghi, dall’obbligo delle direttive nell’individuazione della Pos e compromessa sarà anche l’intelligence sulla individuazione delle stratificazioni criminali che hanno come appendice gli organizzatori delle condotte penalmente rilevanti, poiché intaccata dalla presenza terza sarà la “scena del crimine” con la dispersione delle indagini che il codice di rito (al libro V titolo IV) e sane e consolidate prassi di polizia vogliono che siano eseguite nell’immediatezza del fatto.
Coerente – nonostante lo scarto giurisprudenziale segnato dalla sentenza Cap Anamur – invece la linea della procura di Agrigento (e di altre trinacrie) costantemente vigile sul rischio di eccessivo svuotamento della fattispecie incriminatrice.
Occorre segnalare che le possibilità riequilibratici della giurisprudenza sono limitate e perfino poco auspicabili in un ordinamento giuridico fondato sulla separazione del potere legislativo da quello giudiziario e sulla distinzione delle rispettive funzioni, nel quale i correttivi alla rigidità delle singole norme dovrebbero poter contare sulla capacità del legislatore di mantenere complessivamente coerente il sistema piuttosto che sul loro insistito uso da parte dei giudici22. Tuttavia l’esame delle norme di recente abrogate e subito riscritte (decreto sicurezza)23 mostra la scarsa consapevolezza con la quale, disciplinando l’immigrazione, il legislatore continuerà ad intervenire coinvolgendo l’intera trama dell’ordinamento giuridico, senza alcun approfondimento, per mancanza di approfondita riflessione, sul delicato sistema dei richiami extrapenali, di matrice sovranazionale ed interna, della fattispecie scriminante. Riferimenti sui quali l’interprete ha bisogno di lucida guida per poter definire il solco di illegalità su cui fornire alle forze dell’ordine e militari che presidiano in mare nozioni operative snelle ed efficaci .
E’ intuitivo che il diritto penale dell’immigrazione clandestina trovi difficoltà a forgiarsi in un meltin pot culturale24.
Nell’ottica di un presidio penale scevro da suggestioni va collocata, quindi, l’azione della magistratura inquirente. La giurisprudenza successiva al caso Cap Anamur registra la parte pubblica costantemente intenta ad azionare strategie di contrasto nei confronti di coloro che promuovono, organizzano e gestiscono e anche coadiuvano il traffico di migranti in alto mare.
Inizialmente la magistratura italiana aveva declinato la propria giurisdizione per condotte realizzate al di fuori delle acque territoriali italiane. Il difetto di giurisdizione veniva meno solo quando una porzione, ancorché minima, dei reati ascritti si fosse svolta nel territorio italiano, circostanza che poteva configurarsi solo nel delitto di partecipazione ai reati associativi finalizzati all’immigrazione clandestina realizzati almeno in parte in Italia.
Tuttavia i trafficanti di vite umane – adottato il metodo di traffico della “nave madre” (v. supra), cioè di abbandonare in acque internazionali natanti in pessime condizioni attivando organizzazioni e presidi costieri con una richiesta di soccorso, quindi assumendosi il rischio del naufragio ma mettendosi al riparo dietro il garantismo accordato alle Ong dalla giustizia penale – hanno indotto gli uffici giudiziari siciliani a reagire a questo escamotage criminale foriero di naufragi e morti in mare, con provvedimenti confermati dalla giurisprudenza di legittimità, la quale ha più volte ritenuto che anche condotte realizzate al di fuori del limite delle acque territoriali italiane o, secondo un orientamento estensivo, della c.d. zona contigua, potessero ricadere nella giurisdizione italiana25.
Si è così esperita la strada del radicamento della giurisdizione per il reato associativo che si sia integralmente realizzato oltre frontiera, fondandosi sull’ultima parte dell’art. 7 c.p., mediante il rinvio agli artt. 15 e 5 UNTOC. Come la S.C. ha statuito: “Si ha infatti riguardo ad associazione criminale organizzata in nord Africa, ma diretta a produrre effetti in Italia, per la commissione di reati in materia di immigrazione e quindi ricadente nella previsione – come detto – dell’art. 15, comma 2, lett. c), della suddetta Convenzione.“.
Più ardua e con scarsi risultati la repressione dei reati realizzati nei paesi di origine o di transito africani26.
Ma per quello che ci interessa più direttamente, sempre molto discusso27 – sul piano mediatico più che su quello che accademico – è stato, dopo la sentenza Cap Anamur, l’esercizio della potestà punitiva italiana per condotte di concorso nel favoreggiamento dell’immigrazione clandestina nei confronti di coloro che al comando di navi soccorso battono le acque del Mediterraneo meridionale.
Non pochi i casi di coinvolgimento delle Ong in condotte compiacenti, o peggio collusive, con i trafficanti, anche se non è lecito fissare un nesso presuntivo stabile tra le organizzazioni che operano nel Mediterraneo il quale consenta di costruire un prodromico fattore probante di oggettiva facilitazione del traffico o, più genericamente, di attrazione verso l’Italia di un numero assai cospicuo di migranti (pull factor).
Nel luglio del 2017 la situazione è sfociata nell’adozione di un “Codice di condotta per le Ong impegnate nelle operazioni di salvataggio dei migranti in mare il quale, stante la inevitabile tendenza anche governativa a trascurare la valenza della gerarchia delle fonti, si è dimostrato inefficace sia sotto il profilo preventivo e regolamentare che sotto quello applicativo.
Più interessanti per l’analisi alcuni pronunciamenti giurisprudenziali che dopo la pronuncia “apripista” del Tribunale di Agrigento del 2009, offrono spunti di riflessione molto più duttili di un “Codice di condotta” difficilmente collocabile ad un preciso livello gerarchico tra le fonti, in quanto dalle decisioni giudiziarie si possono rintracciare elementi di coerenza (o meno) con il sistema ordinamentale vigente.
Alcuni procedimenti penali che dopo il 2009 hanno interessato le motonavi di organizzazioni non governative sono la riprova che il giusto piano d’indagine, in uno sperabile riverbero nomofilattico sul legislatore, sia quello – tensioni politiche a parte – della operatività, in termini meno assiomatici di quelli sopra analizzati, delle cause di giustificazione dell’adempimento del dovere e dello stato di necessità nelle ipotesi di concorso nel favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.
Tuttavia le contrastanti vicende processuali rispettivamente della motonave Open Arms della ONG spagnola Proactiva, come anche quella della Iuventa e la Golfo Azzurro28 sono il segno che ad oggi nella giurisprudenza la strada è ancora in salita.
Infatti mentre il Giudice delle indagini preliminari presso il Tribunale di Trapani accoglieva la richiesta avanzata dalla procura, disponendo il sequestro del natante in relazione al reato di favoreggiamento dell’ingresso irregolare, rigettando le richieste della difesa che invocava lo stato di necessità per i rischi che avrebbero corso i migranti nel caso di ritorno in Libia, all’opposto l’autorità giudiziaria di Ragusa competente per territorio disponeva il dissequestro del natante ritenendo che le attività imposte dai trattati internazionali all’Italia non si “esauriscono nel mero recupero in mare dei migranti, ma devono completarsi con lo sbarco in un luogo sicuro (Pos, place of safety)” con conseguente applicazione dell’art. 54 c.p.
Non è azzardato constatare che, a fronte di un protocollo uniforme delle procure siciliane, sussistono forti incertezze dei giudici circa la portata contenutistica delle cause di giustificazione dello stato di necessità (art. 54 c.p.) e dell’adempimento di un dovere (art. 51 c.p.) quando la loro sovrapposizione interessi la condotta di concorso nel favoreggiamento dell’immigrazione clandestina (e reati connessi) che coinvolga, per un determinato segmento, navi i cui armatori siano organizzazioni umanitarie.
Arrivando quasi ai giorni nostri non può non essere menzionato il caso della nave Sea Watch 329 nel quale la Cassazione30 non ha convalidato l’arresto di Carola Rackete comandante della nave della Ong tedesca battente bandiera olandese per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e resistenza a nave militare, che nel giugno 2019 fece rotta verso Lampedusa ed ivi attraccò speronando una motovedetta della GDF nonostante il divieto del governo italiano, dopo aver recuperato numerosi clandestini nella zona Sar libica, ritenendo l’isola la “Place of safety” (Pos) preferibile rispetto al porto di Tripoli offerto dalle autorità libiche che avevano risposto alla richiesta di soccorso ancorché la nave umanitaria fosse giunta per prima sul luogo di imbarco.
Lo “speronamento Lampedusa” avvenne a distanza di pochi giorni dall’entrata in vigore del c.d. “decreto Salvini-bis”31 il quale al comma 3 bis dell’art. 11 T.U. Imm. – ribadendo quanto già disposto dall’art. 19 comma 2 della convenzione UNCLOS32che limita il diritto di passaggio c.d “non inoffensivo” – autorizzava, nelle ipotesi previste dalla norma pattizia, il Ministro dell’Interno di concerto con il Ministro della Difesa e quello delle Infrastrutture e dei Trasporti informandone il Presidente del Consiglio a limitare o vietare l’ingresso, il transito e la sosta di navi non militari nelle acque territoriali.
A seguito del ricorso con cui la Procura di Agrigento impugnò la non convalida dell’arresto della Rackete da parte del Gip, la Cassazione – dopo ampia dissertazione sui meccanismi processuali che presiedono la norma di cui all’art. 385 c.p. che, secondo la Corte, non consente la privazione della libertà personale nel caso di mera “verosimiglianza” e non di piena “riconoscibilità” della ricorrenza di una causa di esclusione dell’antigiuridicità – passano ad esaminare il dato contenutistico della scriminante.
Confermando l’impostazione del Gip di Agrigento gli ermellini ricordano la Convenzione per la salvaguardia della vita umana in mare (SOLAS), la Convenzione SAR di Amburgo e la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, stipulata a Montego Bay (UNCLOS), quali fonti normative del dovere di soccorso in mare e ne spiegano la sostanza.
La Corte nel rigettare il ricorso della procura agrigentina, riconosce, quale contenuto del dovere di soccorso, l’obbligo accessorio della conduzione dei naufraghi in un luogo sicuro nel più breve tempo possibile gravante in capo al soccorritore secondo quanto sancito (a parere del giudice di legittimità) dal par. 3.1.9. della Convenzione SAR.
Senza soffermarci sul dato strutturale della nozione di luogo sicuro (place of safety) approfondita dai giudici di legittimità, è importante registrare che viene confermata la sovrabbondanza del dovere di salvataggio in mare ravvisata dieci anni prima dal giudice della Cap Anamur, cosicché anche l’arresto in flagranza del comandante della nave Sea Watch 3 non viene convalidato poiché la condotta, quale che fosse la qualificazione giuridica, era coperta dalla scriminante di cui all’art. 51 c.p.33.
Secondo la Cassazione, dunque, il dovere di condurre in un Pos i migranti recuperati in mare non è di esclusiva competenza istituzionale, ma muta di ampiezza sino a ricomprendere nella sua nozione il dovere/diritto del privato di scegliere la “Place of safety”.
Benché si sia visto come il testo della norma pattizia (par. 3.1.9 Conv. SAR) nel contemperamento degli importantissimi interessi in gioco debba ritenersi tassativo nell’individuare l’autorità e la responsabilità della parte pubblica nelle operazioni postume al salvataggio in mare, richiamando dunque un elemento più che evidentemente normativo, ancorché procedurale, della fattispecie extrapenale che integra la scriminante, la Suprema Corte sembra ancora preoccupata del livello operativo raggiungibile nella tutela dell’interesse universale al rispetto dei diritti umani dei migranti come se i governi offrissero meno garanzie dell’organismo privato.
Il ché potrebbe anche essere equo, ma si è visto sopra come non sia certamente onere dell’interprete, al di là delle ipotesi di disapplicazione della norma per contrasto con i principi costituzionali, supplire al legislatore pattizio.
Né è consentito – ma non è questo il caso poiché il richiamo del giudice di legittimità è specifico e orientato verso la singola disposizione del par. 3.1.9. cit. di cui impropriamente viene data lettura – fornire un’interpretazione estensiva e generica dei passaggi normativi che impongono il salvataggio in mare, forgiando un dato normativo che addosserebbe sul privato soccorritore un “onere istituzionale” che la pluralità degli accordi internazionali non prevedono affatto né consentono.
Il sistema previsto dal legislatore pattizio, oltre che presentare un alto grado di determinatezza culminante nella disposizione in esame, è anche armonico ed impone una lettura sia testuale del par. 3.1.9 Conv. SAR, ma oltretutto anche sinottica con l’altra disposizione, sopra più volte richiamata, dell’art. 19 comma 2 della UNCLOS che consente agli Stati costieri di non dar luogo in acque territoriali al transito di navi che attuino un “passaggio non inoffensivo”.
E’ infatti di palmare evidenza che i criteri di transito “offensivo” sanciti dalla “Montego Bay” risultano funzionali alla potestà esclusivamente statale riconosciuta dalla norma internazionale di limitare l’accesso a natanti adibiti ad immigrazione clandestina, poiché è sempre e solo quella stessa autorità ad avere la responsabilità di prendere in carico per la ricerca della Pos i passeggeri di quelle navi, conformemente a quanto sancito al par. 3.1.9 Conv. SAR.
Sta di fatto che sulla scia di precedenti quali quelli della Sea Watch3, le ardite imprese, imitate e propagandate sul web34, non si sono arrestate nemmeno a febbraio di quest’anno quando si era già in emergenza Covid 19 ed è di queste ore la notizia dell’ennesima assoluzione, questa volta da parte del Gup di Ragusa35, dell’equipaggio di una Ong.
Conclusioni: La riflessione culturale sul fenomeno dell’immigrazione clandestina e i rimbalzi sulle fattispecie penali
Non può concludersi che equilibrata in genere – ma a maggior guisa in tempi di restrizioni personali da Covid e di attacchi terroristici in territorio europeo preceduti da sbarchi in Italia – possa definirsi, nemmeno nella sua dimensione calibrata come condotta penalmente rilevante ma scusabile, la protezione accordata al traghettamento di migranti dalle “navi madri” di organizzazioni criminali in acque internazionali, sino alle acque interne, puntualmente “staffettato” dalle Ong e fuori dal controllo della pubblica autorità previsto dal diritto internazionale.
Occorre soffermarsi solo un attimo sull’aspetto intellettuale della discussione che investe diversi settori della civiltà occidentale da quello politico a quello sociale suscitando inevitabilmente forte influenza sul legislatore e sull’interprete.
La problematica del rispetto della dignità umana ha una portata tanto vasta che non potrebbe mai trascurarsi di svolgere una qualsiasi riflessione sull’immigrazione clandestina al di fuori del percorso che l’umanità ha intrapreso dall’immediato dopoguerra in poi per riconoscere ad ogni essere umano il diritto alla vita intesa nella sua più ampia accezione.
La produzione normativa pattizia ed il vaglio giurisdizionale della Cedu e delle altre corti Europee sull’indispensabile riconoscimento ad ogni vita umana di pari dignità rappresentano l’”ambiente clinico” entro cui ogni valutazione ad ogni livello sul fenomeno migratorio va effettuata.
I richiami alle norme ed ai protocolli internazionali dei vagliati arresti tranquillizzano dal dubbio che anche uno solo dei diversi passaggi logico interpretativi costituenti il “filtro” umanitaristico” possa essere stato bipassato.
Nella dottrina, poi, non sono mancate voci di scontento, frutto per lo più, di una contestazione di alcune dinamiche normative e di alcune prassi amministrative sulle condotte di respingimento in mare dei migranti.
Si è parlato ad esempio di riesumazione di pericolose forme concettuali del delitto d’autore nella subliminale tendenza del legislatore all’individuazione della coincidenza tra fattore criminogeno e immigrato clandestino.
In tale ottica sono state catalogate come forme degenerative di “sicuritarismo”36 le modifiche al t.u. immigrazione con le quali si sovrappone il dato materiale penale della espulsione e del soggiorno irregolare ad una fattispecie puramente amministrativa,
Secondo alcuni autori “il tema del rapporto tra libertà e sicurezza deve essere riguardato alla luce dello sviluppo del costituzionalismo”, in una prospettiva che “impone una priorità della ‘sicurezza dei diritti’, riguardata in termini promozionali, rispetto al presunto ‘diritto alla sicurezza’”37.Il “concetto di sicurezza “onnicomprensivo” in potenza di ogni aspetto della vita dell’individuo: ogni paura, ogni timore, ogni ansia aprirebbe la strada ad una rilevanza giuridica, in termini di sicurezza, di qualunque cosa”38. Altri ricordano l'”interazione sussistente tra mezzi di comunicazione di massa, sentimenti di (in)sicurezza sociale e scelte di politica criminale” e le conseguenze negative prodotte da “questo tipo di interazione”39. Per altri ancora “non è azzardato affermare – poiché non è insolito osservare concretamente – che le politiche messe in atto per garantire la sicurezza finiscono spesso per combattere l’insicurezza mediante la produzione di altra insicurezza. E ciò, non solo perché la ‘guerra alla paura’ si deve alimentare della paura medesima, in considerazione del ruolo centrale che la gestione delle paure occupa nel circuito della legittimazione politica. Ma anche perché, concretamente, è la natura stessa dei provvedimenti adottati a generare nuove paure”40.
A prescindere dalla fattibilità inevitabilmente nozionistica o peggio ancora ideologica di una “pesatura” delle esigenze sociogiuridiche, la sicurezza dei diritti e il diritto alla sicurezza costituiscono entrambi principi costituzionali senz’altro fondamentali, come tali paritari sul piano concettuale oltre che su quello del generale e sociale riconoscimento da parte della collettività.
Questo non priva di fondamento la preoccupazione della scienza del diritto a ché la necessità sovrana sia quella di ribadire che i diritti fondamentali della persona devono essere costantemente l’angolo visuale di raffronto di ogni regola, prassi e decisione soprattutto in materia di immigrazione.
Tuttavia, soprattutto oggi che da una parte quel vaglio sui diritti fondamentali della persona umana è garantito dal controllo del giudice costituzionale e sovranazionale con puntuale accortezza e dall’altra c’è la cronaca che ci costringe a ripensare l’eresia “sicuritarista”, occorre riflettere al contrario se una deriva umanitarista, forse anche eccessiva, non intacchi, spuntandone le armi, l’esigenza di repressione del disvalore e dell’allarme sociale tipico della fattispecie penale.
In tal senso un buon metodo non può non essere che quello di separare nettamente gli ambiti di discussione, tenendo distinti lo spazio della politica, quello della diplomazia e quello sociologico-culturale da quello della scienza del diritto e del diritto penale in particolare.
In quest’ultimo ambito il criterio del “bene protetto” costituirà, come sempre, il faro per mezzo del quale riconoscere il vero approdo del legislatore, ritenerlo conforme alla Costituzione e al diritto internazionale che è parte sovraordinata dell’ordinamento giuridico.
In tale ottica appare stringente la necessità di tenere distinte le zone di discernimento del fenomeno immigratorio nel suo complesso a meno di non voler confortare e dare riconoscimento a quel “pastrocchio” mediatico a cui spesso si assiste.
Allora forse la intromissione della figura dell’extraneus in contrasto con la fonte normativa di un dovere di derivazione certamente di diritto pubblico (sovranazionale) impone di riallocare il concetto di “fattispecie propria” anche per quelle norme di azione extrapenali che prevedano l’elemento normativo del dovere in termini di pubblica attribuzione e che ontologicamente abbiano potenzialità scusante.
Va da sé che la scelta interpretativa abbia un peso costituzionale nel senso che ogni ordinamento è libero di scegliere se affidare alcuni beni protetti (come la sicurezza) solo all’apparato pubblico o anche al soggetto privato, perché è evidente che rappresenta una scelta basata sui valori fondanti di una nazione decidere se ad es. l’acquisto di un’arma sia libero o debba essere autorizzato. Ne consegue che, ben sapendo che la nostra Costituzione affida la pubblica sicurezza e la tutela dell’ordine pubblico all’autorità, va rivista l’opportunità di affidare il bene protetto della sicurezza, della tutela dei confini e di tutti i corollari istituzionali che ne seguono, ancorché nel rispetto della doverosa tutela dei diritti umani dei migranti, al privato e alle organizzazioni (mai qualifica potrebbe essere più significativa oggi) “non governative” in particolare.
Occorre dunque lasciare libera la scienza del diritto di lavorare in ambiente asettico non inquinato da suggestioni culturali e da strumentazioni a sfondo moralistico per ausiliare il legislatore e l’interprete nella ricerca del bene effettivamente protetto e tutelato dall’ordinamento affinché esso sia esattamente riconosciuto eventualmente prioritario ed esattamente collocato nell’ambito di un dato contesto storico ed anche di una rinnovata dialettica dell’approccio alle diverse esigenze costituzionali che ordinano le norme in una complessiva armonia di sistema.