Partiamo dal principio e cioè da qualche dato: il consumo di prodotti tessili nell’Unione Europea ha, in media, il quarto impatto più elevato sull’ambiente e sui cambiamenti climatici successivamente ad alimentazione, alloggio e mobilità. Il tessile è anche la terza più alta area di consumo per l’uso di acqua e suolo, nonché la quinta per utilizzo di materie prime ed emissione di gas a effetto serra. Queste, abbreviando e semplificando, sono le motivazioni che hanno spinto l’UE ha redigere una strategia per il tessile sostenibile e circolare che, pubblicata a marzo del 2022, contiene azioni coordinate che mirino a cambiare il modo in cui produciamo e consumiamo i prodotti tessili. Tra queste strategie, una è a brevissimo termine: il Passaporto Digitale. Iniziamolo già a chiamare con l’acronimo che più leggerete, vale a dire DPP, forma contratta dell’inglese Digital Product Passport, ovvero un elemento fondamentale della moda del prossimo futuro. Già nel 2026 (o al massimo 2027) infatti, ciascun prodotto tessile dovrà essere dotato di DPP, in sostanza un’etichetta, un QR code o un codice a barre che, se scansionato, darà accesso ad informazioni circa le caratteristiche di sostenibilità e riciclabilità del capo, nonché il suo processo di produzione e la sua provenienza. Più nello specifico, il Passaporto Digitale comprenderà elementi come la carta d’identità “liquida” del prodotto, il peso, lo stabilimento di produzione e la fonte, cioè il tipo di materia prima utilizzata per la creazione del capo. Particolarmente importanti, saranno poi le informazioni relative all’impatto ecologico – ovvero i dati sull’impronta di carbonio del prodotto – alla proprietà, con dettagli sui proprietari passati e attuali del capo, e le preziosissime delucidazioni in merito a garanzie, riparazioni e riciclaggio. Se il tutto vi pare fantascienza, siate pronti a ricredervi perché nella moda c’è già chi ha abbracciato con entusiasmo – e lungimiranza – la tecnologia.
Passaporto digitale: quali brand di moda lo stanno già utilizzando?
È notizia di pochi giorni che Mugler, maison francese del lusso fondata dal visionario Thierry, ha dotato alcuni accessori di DPP. Le sinuose borsette Spiral Curve 01 e 02 avranno da oggi un passaporto digitale, leggibile dagli acquirenti scansionando un QR code, collocato sul retro della tasca interna della borsa.
A cosa condurrà? A un profilo online unico che fornisce dettagli sul prodotto, dalla sua fabbricazione alla sua composizione, nonché un “avatar” digitale della borsa fisica. Attenzione, non finisce qui perché ai clienti Mugler che acquisteranno una Spiral Curve verrà anche dato accesso a offerte e servizi esclusivi, tra cui l’ingresso anticipato ai private sale. “Per noi si tratta di investire su quello che alla fine sarà un vincolo governativo, trasformandolo in opportunità”, ha dichiarato Adrian Corsin, amministratore delegato di Mugler, a Business of Fashion. E, in effetti, il DPP è una grande occasione per svariati motivi: dal valore aggiunto che si dà al cliente che decide di investire su un accessorio di lusso e molto costoso, alla definizione di un nuovo rapporto con i propri acquirenti che, uscendo dal solco della tradizionale dinamica unidirezionale da brand a consumatore, pone invece quest’ultimo al centro, rendendolo parte attiva della vita della maison. Non solo poi; perché se è vero che le nuove generazioni, la Z su tutte, sono sempre più sensibili ai temi della sostenibilità e dell’eticità nella produzione dei prodotti moda, allora sarà anche altrettanto certo che questi giovani consumatori troveranno beneficio dall’introduzione di una tecnologia digitale (mondo, per altro, con cui i giovanissimi sono in estrema confidenza) che consente di tracciare e verificare in modo certo. In parole povere? L’introduzione di DPP è un ottimo ponte tra marketing e sostenibilità. Ma se Mugler è stato previdente – avendo già iniziato a riflettere sul Passaporto Digitale due anni fa, durante la frenesia da NFT e web3 che ha invaso il fashion system, come riporta sempre BoF – anche altri marchi stanno esplorando il potenziale cui l’attribuzione di ID digitali ai propri prodotti potrebbe portare. Il Gruppo Prada, ad esempio, è il promotore insieme a LVMH, Cartier e OTB, di una blockchain, Aura, creata per convogliare altri marchi del lusso in un unico sistema digitale globale, interconnesso e trasparente. Anche Dior e Loro Piana hanno utilizzato i DDP forniti da Aura, rispettivamente per le ginniche B33 e per una capsule collection di capi in lana merino.
Chloé Vertical, invece, è il progetto lanciato lo scorso febbraio dalla maison francese nell’ambito della collezione Primavera Estate 2023 tutta dotata, grazie alla tecnologia di EON, di Passaporti Digitali contenenti un certificato di garanzia, oltre che informazioni circa la tracciabilità del capo, la sua riparazione o rivendita. Mulberry Exchange è il programma di economia circolare del brand britannico che ha previsto l’inserimento di un ID digitale nelle borse pre-loved del marchio. Come funziona? La maison autentica le borse usate dei clienti, fornendo loro un credito per l’acquisto di un nuovo accessorio. Quelle vintage sono poi disponibili all’acquisto grazie alla partnership esclusiva con Vestiaire Collective, a mente l’obiettivo di una sempre maggiore longevità dei prodotti del marchio. Un processo facile? Niente affatto, perché per poterlo attuare le aziende potrebbero dover effettuare investimenti tecnologici, ripensare i processi e formare e allineare un gran numero di persone nella creazione di DPP per tutti i prodotti che potrebbero essere interessati. In occasione di Vertical, da Chloé hanno infatti precisato: “Si è trattato di un progetto pilota: la sfida più grande è quella di replicarlo a lungo termine su scala più ampia”. E, aggiungiamo, con tecnologie che siano di facile lettura per i consumatori finali se è vero che nei post online sui Passaporti Digitali delle sneakers di Dior, ad esempio, molti utenti lamentavano un’esperienza complicata o con informazioni insufficienti.
Com’è nato il Passaporto Digitale e quali sono le criticità cui potrebbe andare incontro
Oltre alla Commissione Europea, tra i protagonisti coinvolti nella realizzazione del Passaporto Digitale figura anche Re Carlo d’Inghilterra, fondatore di quella Sustainable Markets Iniatiative da cui deriva la Fashion Taskforce guidata dall’ideatore di Yoox Net-A-Porter Group, Federico Marchetti. Tra i membri che fanno parte di questo gruppo di studio e di sviluppo di idee innovative, sono presenti altre figure di spicco del settore tra cui Brunello Cucinelli, Giorgio Armani, Stella McCartney, Burberry, Chloé, Mulberry, insieme a gruppi come Zalando, Vestiaire Collective, Moda Operandi, Selfridges e The Dubai Mall.
Perché l’obiettivo è alto, altissimo; portare tutti i settori inerenti al macrocosmo della moda verso scelte e processi che aiutino a ridurre l’impatto sull’ambiente, realizzando un sistema digitale che fornisca in modo semplice ai consumatori tutte le informazioni riguardanti la sostenibilità dei capi. Chiaro, l’iniziativa presenta anche alcune criticità che vanno dalla privacy, alla sicurezza dei dati, al segreto industriale, forse la parte più delicata di tutte che imporrà alle aziende informazioni limpide su materiali e processi di produzione. Infine, una domanda: ai clienti davvero interessa il DDP? Secondo quanto riportato da Sarah Willersdorf, responsabile globale del settore lusso del Boston Consulting Group, a BoF, sì. O meglio: “I clienti non chiedono specificatemene i Passaporti Digitali, ma vogliono comunque maggiore chiarezza”. Tradotto; il consumatore medio- e non solo quello fortemente impegnato nella causa della sostenibilità- vuole poter “leggere le etichette” in modo chiaro, al fine di poter effettuare acquisti sempre più accorti e ragionati. E il Passaporto Digitale potrebbe essere la soluzione. Per saperne (ancora) di più, arrivederci al 2026.