Con le sentenze n. 30344 e n. 30345 del 18 dicembre 2017 la Corte di Cassazione ha preso per la prima volta posizione su una questione di non poca rilevanza che, sorta nell’ambito della c.d. “Operazione Poseidone” (avviata dall’INPS al fine di contrastare evasione ed elusione contributiva), ha dato vita a un imponente e diffuso contenzioso, che ha interessato pressoché tutte le categorie di liberi professionisti non iscritti alla cassa previdenziale di riferimento.
Più in particolare, nelle vicende portate all’attenzione della Suprema Corte si è discusso se sussista l’obbligo di iscrizione alla gestione separata INPS per i professionisti che svolgono attività autonoma libero-professionale e che non sono tenuti all’iscrizione al relativo ente di previdenza in virtù del contemporaneo svolgimento di attività lavorativa subordinata per la quale godono di altra copertura assicurativa: nella fattispecie si trattava rispettivamente di un ingegnere e di un architetto che, in quanto dipendenti (uno, in particolare, pubblico) iscritti all’INPS, avevano versato a INARCASSA, per l’attività professionale svolta, il contributo integrativo (e non quello soggettivo, essendo impossibilitati a iscriversi all’ente di previdenza categoriale in virtù del divieto di cui all’art. 3, l. 4 marzo 1958, n. 179, come sostituito dall’art. 2, l. n. 1046/1971[1]), ma non avevano versato alcuna contribuzione alla gestione separata INPS con riferimento ai redditi prodotti quali lavoratori autonomi.
In sede di merito, salvo un indirizzo interpretativo minoritario conforme a quello che si rivelerà, poi, essere l’orientamento della Cassazione[2], il contenzioso è stato risolto in massima parte nel senso dell’esclusione dell’obbligo di iscrizione alla gestione separata INPS di «tutti i soggetti comunque tenuti a corrispondere a casse ed enti previdenziali privati dei contributi, quale che ne sia la tipologia e natura»[3], e ciò essenzialmente sulla base di due argomenti: l’uno, di carattere sistematico, diretto a ravvisare la ratio della previsione di cui all’art. 2 della legge n. 335/1995 nell’esigenza di assicurare copertura assicurativa e tutela previdenziale a soggetti che, in mancanza di iscrizione alla gestione separata, ne sarebbero privi (ciò che – si argomenta ulteriormente – non potrebbe dirsi nel caso in cui il professionista sia iscritto a una cassa previdenziale o, comunque, a una forma obbligatoria di previdenza, solitamente l’INPS o, in passato, l’INPDAP); l’altro, di carattere testuale, volto a valorizzare l’ampiezza e la genericità del riferimento al «versamento contributivo», senza ulteriori specificazioni, contenuto nell’art. 18, co. 12, d.l. n. 98/2011.
È, perciò, evidente che la soluzione del problema presuppone una duplice presa di posizione in ordine rispettivamente al significato dell’istituzione della gestione separata e al senso dell’imposizione di obblighi contributivi “infruttiferi”, cioè “a fondo perduto” perché non destinati ad alimentare alcuna posizione assicurativa suscettibile di sfociare nell’erogazione di prestazioni previdenziali, ma agganciati a mere finalità solidaristiche, sia pure endocategoriali[4].
Il quadro normativo: alle origini della gestione separata INPS
Come si è avuto modo di ricordare in altra sede[5], diversamente da ciò che molti credono, l’idea di prevedere una copertura previdenziale pensata inizialmente per i cosiddetti lavoratori parasubordinati nasce non con la “riforma Dini” (legge n. 335/1995), bensì con il d.l. 22 maggio 1993, n. 155, che, all’art. 2, co. 1, così stabiliva: «I soggetti che svolgono attività lavorativa di cui all’art. 409, n. 3, del codice di procedura civile, non iscritti obbligatoriamente in relazione a dette attività a casse o fondi pensionistici, sono tenuti a versare, a decorrere dal 1º giugno 1993, al Fondo pensioni lavoratori dipendenti, gestito dall’INPS, un contributo determinato applicando l’aliquota complessivamente dovuta a tale Fondo per la generalità dei lavoratori dipendenti sui compensi lordi percepiti come corrispettivo dell’attività prestata».
Questa copertura aveva delle caratteristiche ben precise, che è utile rammentare:
a) quanto all’individuazione dei soggetti protetti:
– era effettuata con la tecnica tradizionale del rinvio per relationem a una specifica tipologia di attività lavorativa (in questo caso: l’attività di lavoro cosiddetto parasubordinato, cioè lo svolgimento di «attività lavorativa di cui all’art. 409, n. 3, del codice di procedura civile»);
– aveva una finalità dichiaratamente protettiva (e apparentemente residuale), ben esplicitata dal requisito dell’assenza di copertura previdenziale obbligatoria, e, comunque, riferita non all’ambito di tutela di cui in assoluto godeva il lavoratore, ma all’eventuale assenza di protezione relativa alla specifica attività di lavoro parasubordinato («soggetti […] non iscritti obbligatoriamente in relazione a dette attività a casse o fondi pensionistici»);
b) quanto alla base imponibile, essa era individuata con riferimento ai «compensi lordi percepiti come corrispettivo dell’attività prestata»;
c) quanto all’aliquota contributiva, il contributo veniva determinato «applicando l’aliquota complessivamente dovuta a tale Fondo [il FPLD] per la generalità dei lavoratori dipendenti»;
d) la gestione di riferimento, infine, era individuata nel «Fondo pensioni lavoratori dipendenti, gestito dall’INPS».
La rivolta contro questa estensione dell’obbligo assicurativo fu immediata e le critiche si appuntarono, in particolare, sulla genericità degli aspetti gestionali del nuovo contributo, demandati pressoché integralmente a un futuro decreto interministeriale: tant’è che la legge di conversione 19 luglio 1993, n. 243 dispose la soppressione dell’intero art. 2, d.l. n. 155/1993.
All’iniziale insuccesso il legislatore rispose reiterando l’iniziativa, sia pure con alcune significative innovazioni: così, con l’art. 11, co. 11, l. 24 dicembre 1993, n. 537 venne stabilito che «a far data dal 1° gennaio 1994, i lavoratori che svolgono le attività di cui all’articolo 49[6], del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con d.p.r. 22 dicembre 1986, n. 917, ad eccezione dei titolari di pensione diretta e dei percettori di borse di studio, sono iscritti, ai fini dell’assicurazione generale obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia ed i superstiti, in una gestione separata, nell’ambito della gestione dei contributi e delle prestazioni previdenziali degli esercenti attività commerciali e nel rispetto delle disposizioni previste per quest’ultima gestione, fatta esclusione del livello minimo imponibile ai fini contributivi, di cui all’articolo 1, comma 3, della l. 2 agosto 1990, n. 233». I successivi commi 12-15 completavano sommariamente la disciplina, i cui dettagli attuativi erano pure qui rinviati a decreti interministeriali.
Nonostante anche tale normativa sia rimasta lettera morta (tant’è che verrà, poi, abrogata dall’art. 2, l. 8 agosto 1995, n. 335, a decorrere dal 1° gennaio 1994), essa è stata comunque impiegata dal legislatore come canovaccio per elaborare le norme inserite poi nella legge di riforma del sistema pensionistico (art. 2, co. 25-26, l. n. 335/1995).
E, in effetti, in quella normativa del dicembre 1993 erano già presenti in nuce molti degli spunti che verranno ripresi dalla l. n. 335/1995 (e che si discostano fortemente dalla precedente impostazione del d.l. n. 155/1993):
a) l’individuazione dei soggetti protetti viene effettuata sempre sulla base dell’attività svolta, che è, però, a sua volta identificata in relazione alla tipologia di reddito prodotto;
b) la gestione di riferimento esce dall’orbita del FPLD e diviene una «gestione separata, nell’ambito della gestione dei contributi e delle prestazioni previdenziali degli esercenti attività commerciali».
Del pari già presente (e, anzi, probabilmente in misura ancor più ampia rispetto al tenore dell’art. 2, co. 1, d.l. n. 155/1993) è la finalità protettiva (in chiave, peraltro, qui effettivamente residuale[7]), chiaramente percepibile nel comma 13 dell’art. 11, l. n. 537/1993: «Le disposizioni del comma 11 non si applicano nei confronti dei lavoratori che svolgono attività lavorative per le quali operano forme pensionistiche obbligatorie».
Si giunge così finalmente all’art. 2, co. 25 ss., l. n. 335/1995, che, previa abrogazione, a decorrere dal 1° gennaio 1994, delle disposizioni di cui ai commi 11, 12, 13, 14, e 15 dell’art. 11, l. n. 537/1993, pone i tratti essenziali della tutela de qua (solo essenziali, appunto, in quanto quella tutela richiederà poi l’emanazione di decreti ministeriali che dovranno altresì affrontare le forche caudine del TAR Lazio), includendo sotto l’ombrello protettivo, oltre ai soggetti che esercitano per professione abituale, ancorché non esclusiva, attività di lavoro autonomo, di cui al comma 1 dell’art. 49 del t.u.i.r., anche «i titolari di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, di cui al comma 2, lettera a), dell’art. 49» (oggi: art. 50, co. 1, lett. c-bis) del d.p.r. n. 917/1986.
A ogni buon conto, le caratteristiche ormai abbastanza definite di questa nuova forma di tutela sono le seguenti:
a) conferma della finalità dichiaratamente protettiva (del resto, esplicitata già nell’art. 1, co. 1, l. n. 335/1995) e della sua residualità (comprovata dalla circostanza che lo stesso incipit del comma 26 dell’art. 2, l. n. 335/1995 finalizza il nuovo obbligo di «iscrizione presso una apposita gestione separata, presso l’INPS», «all’estensione dell’assicurazione generale obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia ed i superstiti», con ciò evidentemente presupponendo che quella estensione non opera per chi ha già una copertura previdenziale obbligatoria): in realtà, l’assenza tanto di uno specifico collegamento tra la mancanza di copertura previdenziale obbligatoria e l’attività in relazione alla quale era stato previsto il nuovo obbligo contributivo (come nell’art. 2, co. 1, d.l. n. 155/1993), quanto di una clausola di esclusione ad ampio raggio, correlata allo svolgimento di una qualunque attività lavorativa, purché dotata di copertura previdenziale obbligatoria (art. 11, co. 13, l. n. 537/1993), potevano astrattamente indurre a ritenere che l’introduzione della tutela operasse solo per le attività non assoggettate ad assicurazione generale obbligatoria IVS, anche se svolte da soggetti già coperti sul piano previdenziale in relazione ad altre attività lavorative[8] (sulla falsariga della previsione di cui all’art. 2, co. 1, d.l. n. 155/1993) o, più restrittivamente, solo per i lavoratori in assoluto privi di copertura previdenziale obbligatoria (in conformità alla possibile interpretazione dei commi 11 e 13 dell’art. 11, l. n. 537/1993);
b) individuazione della base imponibile in relazione al «reddito delle attività determinato con gli stessi criteri stabiliti ai fini dell’imposta sul reddito delle persone fisiche, quale risulta dalla relativa dichiarazione annuale dei redditi e dagli accertamenti definitivi» (art. 2, co. 29);
c) aliquota contributiva del 10%;
d) istituzione di un’apposita «gestione separata, presso l’INPS».
Queste, dunque, sono le stigmate con cui nasce la tutela previdenziale del lavoro autonomo abituale privo di altra copertura obbligatoria e del lavoro parasubordinato: stigmate originarie, s’intende, poi parzialmente trasformate con l’evolversi della legislazione di riferimento, ma comunque tali da consentire di scorgere già alla nascita, a fianco dell’ispirazione «universalistica» propria della tutela previdenziale[9], quell’«inequivocabile carattere antifrastico della disciplina in esame»[10] che, pur a distanza di molti anni, sarà rintracciabile nella dialettica che, a proposito della questione di costituzionalità dell’art. 12, co. 11, d.l. 31 maggio 2010, n. 78, verrà a instaurarsi tra l’ordinanza di rimessione della Corte d’Appello di Genova e la sentenza della Corte costituzionale n. 15 del 23 gennaio 2012.
Per quanto rileva nella questione decisa da Cass. n. 30344/2017 e n. 30345/2017, il quadro normativo deve, poi, essere completato ricordando che:
– ai sensi dell’art. 18, co. 12, d.l. n. 98/2011 (convertito con l. n. 111/2011), l’art. 2, co. 26, l. n. 335/1995, «si interpreta nel senso che i soggetti che esercitano per professione abituale, ancorché non esclusiva, attività di lavoro autonomo tenuti all’iscrizione presso l’apposita gestione separata INPS sono esclusivamente i soggetti che svolgono attività il cui esercizio non sia subordinato all’iscrizione ad appositi albi professionali, ovvero attività non soggette al versamento contributivo agli enti di cui al comma 11, in base ai rispettivi statuti e ordinamenti, con esclusione dei soggetti di cui al comma 11»[11];
– in virtù dell’art. 3, l. 4 marzo 1958, n. 179 (come sostituito dall’art. 2, l. n. 1046/1971), sono iscritti alla Cassa tutti gli ingegneri e architetti che possono per legge esercitare la libera professione[12], e a decorrere dal 1° gennaio 1972 sono esclusi dalla iscrizione alla Cassa gli ingegneri e architetti iscritti a forme di previdenza obbligatorie in dipendenza di un rapporto di lavoro subordinato o comunque di altra attività esercitata[13] (v. anche l’art. 21, co. 5, l. n. 6/1981[14]).
Le argomentazioni dell’INPS e il loro integrale accoglimento da parte della Corte di Cassazione
A fronte di questo quadro normativo, la posizione dell’INPS si delinea abbastanza agevolmente: se un soggetto esercita, per professione abituale, ancorché non esclusiva, attività di lavoro autonomo che non richiede l’iscrizione a un albo professionale oppure attività di lavoro autonomo il cui esercizio è subordinato all’iscrizione a un albo professionale[15], ma che non è soggetta al «versamento contributivo» all’ente di categoria, sorge l’obbligo di iscrizione presso l’apposita gestione separata[16]. Più in particolare, sin dalla prima circolare successiva all’entrata in scena della norma di interpretazione autentica di cui all’art. 18, co. 12, d.l. n. 98/2011 (ritenuta confermativa dell’orientamento amministrativo espresso dall’Istituto[17]) l’INPS sostiene che debbano rientrare nell’ambito della gestione separata «tutti coloro che, pur svolgendo attività iscrivibili ad appositi albi professionali, non siano tenuti al versamento del contributo soggettivo presso le Casse di appartenenza, ovvero abbiano esercitato eventuali facoltà di non versamento/iscrizione, in base alle previsioni dei rispettivi Statuti o regolamenti»[18], e ribadisce che «tali soggetti continueranno ad essere destinatari dell’obbligo contributivo alla gestione separata INPS, in considerazione del fatto che i redditi percepiti non risultano assoggettati ad altro titolo a contribuzione previdenziale obbligatoria»: una posizione, questa, estremamente coerente, se solo si consideri che già nel 1996, ragionando intorno all’obbligo di versare il contributo (allora del 10%) previsto dall’art. 2, co. 26, della legge n. 335 del 1995, l’Istituto aveva affermato che «il professionista è tenuto al pagamento del contributo alla gestione separata relativamente ai redditi professionali non assoggettati a contribuzione previdenziale obbligatoria presso la cassa di categoria. Si chiarisce al riguardo che il pagamento alla cassa professionale di un contributo forfettario di importo non direttamente proporzionale al reddito, ma determinato in misura fissa, integra le condizioni per l’esclusione dal pagamento del contributo del 10% alla gestione separata INPS se, in relazione al contributo versato alla cassa, è prevista l’erogazione di un trattamento pensionistico. Qualora il versamento forfettario fisso sia invece effettuato a titolo di solidarietà e non comporti la valutazione del periodo ai fini pensionistici a carico della cassa professionale – si cita a titolo di esempio, il caso dell’ENPAM – il reddito, fermo restando quanto stabilito dal d.l. n. 166/1996 citato circa la decorrenza dell’obbligo assicurativo, dovrà essere assoggettato a contribuzione INPS»[19]; e ancor prima aveva sostenuto che l’esonero dal pagamento del contributo alla gestione separata riguardava coloro che, pur producendo redditi di lavoro autonomo, fossero soggetti ad altre forme assicurative, sempreché non avessero redditi di natura diversa, soggetti come tali alla disciplina dell’art. 2, co. 26, l. n. 335/1995[20].
Altrettanto chiara, poi, è la linea adottata dalla Cassazione per dirimere la questione: sebbene la richiamata norma interpretativa menzioni genericamente, a fini esonerativi, il «versamento contributivo», tale deve intendersi solo quel versamento potenzialmente produttivo di effetti pensionistici (perché suscettibile di alimentare una «posizione previdenziale», virtualmente destinata a sfociare in una prestazione), non il versamento “sterile”. In una parola, potremmo dire che possiede quella virtù esonerativa solo il «versamento contributivo» cui si riconosca natura propriamente previdenziale[21], non quello che ha natura – se così si può affermare – meramente fiscale perché il momento impositivo, visto nell’ottica del soggetto inciso dal prelievo, ne assorbe integralmente la finalità, restando esclusa qualunque traccia di corrispettività, sia pure latamente intesa.
Per giustificare questo percorso e questo approdo la Suprema Corte elabora un ragionamento piuttosto avvolgente (ma – come vedremo – in parte non lineare perché, più o meno consapevolmente, mutilato):
– prende innanzitutto le mosse da una nota decisione delle Sezioni Unite del 2010[22], cui attinge a piene mani, mutuandone i passaggi cruciali e, in particolare, l’idea che l’universalizzazione della tutela previdenziale debba essere intesa, più che in termini soggettivi (perché riferita a categorie di soggetti individuati in relazione all’attività lavorativa prestata), in termini oggettivi[23] (perché basata sulla mera percezione di un reddito)[24]: cosicché, più che di universalizzazione della tutela[25], dovrebbe parlarsi, in realtà, di generalizzazione dell’obbligo contributivo, cioè di estensione dello stesso a qualunque tipologia di reddito correlato allo svolgimento di un’attività lavorativa[26], con conseguente proliferazione delle obbligazioni contributive ogniqualvolta un soggetto risulti percettore di più redditi derivanti da diverse attività assoggettate a regimi previdenziali differenti;
– fonda sulla predetta distinzione la differenziazione fra le gestioni tradizionali e la gestione separata;
– ricorda, sulla scia della richiamata sentenza delle Sezioni Unite, che «all’espletamento di una duplice attività lavorativa, quando per entrambe è prevista una tutela assicurativa, deve corrispondere una duplicità di iscrizione alle diverse gestioni», in ossequio «a quella che può considerarsi una “regola” del nostro ordinamento previdenziale […], secondo la quale il contemporaneo svolgimento di due (o più) attività lavorative, soggette a due (o più) regimi previdenziali distinti, comporta l’assoggettamento pieno alla disciplina (anche) contributiva di ciascuna delle forme assicurative interessate»[27];
– evidenzia la diversità tra il contributo soggettivo (cui sono tenuti solo gli iscritti agli enti previdenziali di riferimento) e il contributo integrativo (nel caso di specie, dovuto da tutti gli iscritti agli albi di ingegnere e architetto, indipendentemente dall’iscrizione all’INARCASSA, «la cui istituzione si giustifica esclusivamente in relazione alla necessità dell’INARCASSA di disporre di un’ulteriore fonte di entrate con cui sopperire alle prestazioni cui è tenuta, è ripetibile nei confronti del beneficiario della prestazione professionale e dunque è in realtà posto a carico di terzi estranei alla categoria professionale cui appartiene il professionista»);
– afferma, però, che quella diversità non riverbera i suoi effetti sulla lettura dell’art. 18, co. 12, d.l. n. 98/2011, posto che il generico riferimento a un «versamento contributivo» non consente all’interprete di utilizzare promiscuamente, a fini esonerativi, il contributo soggettivo e il contributo integrativo, l’unico versamento contributivo rilevante ai fini dell’esclusione dell’obbligo di iscrizione alla gestione separata essendo quello suscettibile di costituire in capo al lavoratore autonomo una correlata posizione previdenziale potenzialmente destinata a sfociare nell’erogazione di un trattamento pensionistico (in proposito la Cassazione assembla concettualmente i commi 25 e 26 dell’art. 2, l. n. 335/1995 e l’art. 6, d.m. n. 281/1996[28], replicando pedissequamente quanto sostenuto dall’INPS nella circolare n. 99/2011[29]).
La latente (e insopprimibile?) tensione fra momento impositivo e obiettivi di tutela
Si è detto che la sentenza annotata prende a prestito non solo lo sviluppo concettuale, ma anche vari brani di Cass., Sez. Un., n. 3240/2010, a loro volta inusualmente mutuati, pressoché letteralmente, da un articolo pubblicato on line.
Vi è, però, un passaggio della decisione delle Sezioni Unite del 2010 che singolarmente viene taciuto nel 2017, ed è quel passaggio in cui si legge che, «più che un contributo destinato ad integrare un settore previdenzialmente scoperto, i conferimenti alla gestione separata hanno piuttosto il sapore di una tassa aggiuntiva su determinati tipi di reddito, con il duplice scopo di “fare cassa” e di costituire un deterrente economico all’abuso di tali forme di lavoro»: come si può notare, un passo piuttosto singolare, molto istintuale e assai poco giuridico, in cui, tra l’altro, la Cassazione sembra quasi voler accantonare quanto affermato poche righe prima a proposito della ratio dell’introduzione della gestione separata, là dove sostiene che «con la creazione di questa nuova gestione si è inteso estendere la copertura assicurativa, nell’ambito della cd. “politica di universalizzazione delle tutele”, non solo a coloro che ne erano completamente privi, ma anche a coloro che ne fruivano solo in parte, a coloro cioè che svolgevano due diversi tipi di attività e che erano “coperti” dal punto di vista previdenziale, solo per una delle due, facendo quindi in modo che a ciascuna corrispondesse una forma di assicurazione». Ma in realtà, al di là della provocazione percepibile in quella “battuta” fatta propria dalle Sezioni Unite, della percezione che la communis opinio ha di quella gestione, e dei malumori causati dalla spesso lamentata esiguità delle prestazioni erogate dalla gestione separata (ciò che, peraltro, ben poco rileva sul piano giuridico), appare francamente improponibile una qualificazione in termini puramente tributari (nel senso di esclusivamente impositivi) del contributo destinato a quella gestione, data la evidente fruttuosità dello stesso in ottica previdenziale (per quanto modesta essa possa essere).
Di contro, al contributo integrativo versato a INARCASSA difficilmente potrebbero disconoscersi caratteristiche proprie del tributo[30], ove si consideri che (come rilevano le sentenze n. 30344 e n. 30345 del 18 dicembre 2017) si tratta di prestazione imposta al professionista per il solo fatto di essere iscritto agli albi di ingegnere e architetto, indipendentemente dall’iscrizione all’ente previdenziale, nella forma di una maggiorazione percentuale applicata su tutti i compensi rientranti nel volume di affari ai fini IVA e versata alla Cassa indipendentemente dall’effettivo pagamento da parte del beneficiario della prestazione professionale, salva ripetizione nei confronti di quest’ultimo (art. 10, l. n. 6/1981, e art. 5 del Regolamento di previdenza INARCASSA): sì che, in effetti, al contributo integrativo versato dal professionista non iscritto all’ente di previdenza[31] paiono attagliarsi tutte le caratteristiche individuate da Cass., Sez. Un., 9 gennaio 2007, n. 123[32] come sintomatiche della natura tributaria di una determinata prestazione, e, cioè, la mancanza di «giustificazione o in una finalità punitiva perseguita dal soggetto pubblico, o in un rapporto sinallagmatico tra la prestazione stessa ed il beneficio che il singolo riceve»[33].
L’evidente diversità di natura (rispettivamente previdenziale e tributaria) e finalità dei due contributi in esame (alla gestione separata e all’ente di previdenza categoriale) sottrae, quindi, un argomento alla tesi volta a leggere in chiave esonerativa l’art. 18, co. 12, d.l. n. 98/2011, ma non giustifica ancora l’obbligo di versamento alla gestione separata, a fondamento del quale, semmai, possono addursi altre considerazioni di diverso rilievo sistematico.
La prima è desumibile dal rapporto tra i commi 11 e 12 di questa norma. Al fine di individuare coloro che sono tenuti all’iscrizione presso la gestione separata il comma 12 menziona, tra l’altro, coloro che svolgono attività (il cui esercizio sia subordinato all’iscrizione ad appositi albi professionali, ma che) non sono soggette al versamento contributivo agli enti di cui al comma 11 (gli enti previdenziali di categoria), con esclusione dei soggetti di cui al comma 11.
I soggetti di cui al comma 11 sono i pensionati che esercitano un’attività professionale e in relazione allo svolgimento di tale attività percepiscono un reddito: per costoro il combinato disposto di cui ai commi 11 e 12 prevede l’esclusione dall’obbligo di iscrizione e di contribuzione alla gestione separata, a fronte, però, della previsione dell’obbligo di iscrizione e di contribuzione agli enti previdenziali di diritto privato di cui ai decreti legislativi 30 giugno 1994, n. 509 e 10 febbraio 1996, n. 103, cioè, appunto, in presenza di copertura assicurativa presso l’ente previdenziale di categoria. La tutela stabilita per questi soggetti è, quindi, “piena” («è previsto un contributo soggettivo minimo con aliquota non inferiore al cinquanta per cento di quella prevista in via ordinaria per gli iscritti a ciascun ente»[34]), nel senso che l’attività professionale del pensionato prevede comunque una copertura previdenziale, cioè impone il versamento di un contributo che alimenta una posizione assicurativa (e, se si tratta di professionista che è titolare di pensione presso il medesimo ente previdenziale, dà diritto alla corresponsione di prestazioni supplementari[35]).
Sul piano sistematico ci si potrebbe allora chiedere per quale motivo il libero professionista che esercita un’attività professionale (in relazione alla quale percepisce un reddito) deve comunque versare il contributo soggettivo (oltre al contributo integrativo) agli enti previdenziali di diritto privato di cui ai decreti legislativi n. 509/1994 e n. 103/1996 anche se ha già una tutela previdenziale perché titolare di prestazione pensionistica, mentre il libero professionista che esercita un’attività professionale e ha una copertura previdenziale presso un ente di previdenza obbligatoria diverso dall’ente di categoria non dovrebbe versare, in relazione a quella attività, né il contributo soggettivo (perché non iscritto alla relativa cassa), né il contributo alla gestione separata. Di più: ci si potrebbe anche chiedere perché il medesimo libero professionista possa esercitare un’attività professionale che prevede l’iscrizione in un albo professionale, ma non l’iscrizione al relativo ente di previdenza (in virtù del contemporaneo svolgimento di attività lavorativa subordinata per la quale gode di altra copertura assicurativa), senza essere tenuto all’iscrizione alla gestione separata presso l’INPS, e poi, una volta conseguita la pensione, in caso di prosecuzione dell’attività libero-professionale debba necessariamente iscriversi all’ente previdenziale di categoria, versando il contributo soggettivo. In altre parole: perché la medesima attività professionale dovrebbe essere esente da contribuzione (fatto salvo il versamento del contributo integrativo) quando quel professionista è in attività (e solo perché egli gode di copertura contributiva in relazione a tutt’altra attività, ma non beneficia ancora di prestazione previdenziale), e dovrebbe, invece, essere assoggettata a contribuzione nel momento in cui quello stesso professionista acquisisce la veste di pensionato?
A questa domanda, di impronta sistematica, si potrebbe rispondere trincerandosi dietro l’ubi lex voluit, e, valorizzando il mero dato letterale, sostenere che il legislatore, quando ha voluto precisare che l’esonero dal contributo alla gestione separata è legato al versamento di uno specifico contributo, lo ha detto espressamente: ciò che avviene, appunto, nel comma 11 (ove si menziona esplicitamente il «contributo soggettivo»), e non nel comma 12, che si limita a parlare di «versamento contributivo» senza specificare alcunché. Una simile risposta, però, sarebbe strabica e disomogenea per almeno due motivi: in primo luogo, perché fondata su un argomento meramente testuale, impropriamente utilizzato per risolvere una questione di sistema; in secondo luogo, perché non contribuirebbe in alcun modo a render ragione della ravvisata difformità che – come si è visto – verrebbe a crearsi tra la situazione di cui al comma 11 e quella di cui al comma 12 (oggetto delle vicende che hanno dato vita all’ampio contenzioso sorto nell’ambito della c.d. “Operazione Poseidone”), cioè non varrebbe a spiegare perché la medesima attività dovrebbe essere soggetta a prelievo contributivo se esercitata da un libero professionista già pensionato, ma non se posta in essere da un libero professionista che beneficia (non ancora della pensione, ma semplicemente) di altra copertura previdenziale obbligatoria, relativa, per di più, ad attività del tutto diversa.
A questa prima considerazione, volta a valorizzare il collegamento, interno alla norma interpretativa, tra i commi 11 e 12 dell’art. 18, d.l. n. 98/2011, se ne aggiunge una seconda (quella sviluppata, in particolare, dalla Cassazione nelle sentenze n. 30344 e n. 30345 del 18 dicembre 2017, sulla scia di Cass., Sez. Un., n. 3240 del 2010), fondata sul collegamento tra lo stesso art. 18 e l’art. 2, co. 26, l. n. 335/1995. Se, infatti, si condivide il presupposto della «finalità universalistica dell’istituzione della gestione separata», e soprattutto se si condivide l’interpretazione di questo connotato come legittimante l’estensione non solo – sul piano soggettivo – della tutela previdenziale a categorie di lavoratori prima non tutelati, ma anche – sul piano oggettivo – della imposizione contributiva a redditi prima non gravati dal prelievo (perché derivanti da attività non coperte dal punto di vista previdenziale), appare difficilmente giustificabile l’idea che residuino attività di lavoro generatrici di reddito non inciso da contribuzione volta ad alimentare posizioni contributive potenzialmente destinate a “produrre” prestazioni previdenziali: tanto più (ma è questo, in fondo, poco più che un dettaglio) che, come rileva la Suprema Corte nelle decisioni del dicembre 2017, nell’ambito della gestione separata l’obbligazione contributiva è collegata alla «mera percezione di un reddito».
Infine (ed è, questa, la terza considerazione), si deve rammentare che il problema suscitato da questo particolare profilo della c.d. “Operazione Poseidone” non è, poi, molto diverso dalla questione che si è posta allorché un professionista iscritto a un albo professionale e alla relativa cassa previdenziale di categoria svolga un’attività non rientrante tra quelle tipiche della professione.
In proposito è noto che la giurisprudenza della Cassazione tende ad affermare una lettura abbastanza ampia del concetto di “esercizio della professione”, giustamente basata sull’idea che in esso devono rientrare le attività che «richiedono le stesse competenze tecniche di cui il professionista si avvale nell’esercizio dell’attività professionale e nel cui svolgimento, quindi, mette a frutto (anche) la specifica cultura che gli deriva dalla formazione tipo, logicamente propria della sua professione»: il che consente, quindi, di attrarre opportunamente nell’orbita della previdenza di categoria attività contigue o collaterali rispetto all’attività professionale tipica, ma nel contempo impone anche l’obbligo di iscrizione alla gestione separata per le attività, pur svolte dal professionista, che, però, non rientrano nell’esercizio della professione perché non implicano l’impiego delle competenze ad essa proprie, coerentemente, del resto, con quanto prevede il comma 12 dell’art. 18, là dove stabilisce che l’iscrizione a tale gestione è obbligatoria per i soggetti che esercitano per professione abituale, ancorché non esclusiva, attività di lavoro autonomo di cui all’art. 53, co. 1, del t.u.i.r., l’esercizio della quale non è subordinato all’iscrizione ad appositi albi professionali (e fermo restando, peraltro, che se un’attività non richiede l’iscrizione all’albo, ma comporta l’impiego delle medesime competenze, essa deve essere attratta nella previdenza di categoria[36]).
Certo nell’ipotesi qui prospettata si ha a che fare con attività svolta dal professionista, ma che non rientra nell’esercizio della professione e, quindi, non è assoggettata a contribuzione presso l’ente previdenziale di categoria, mentre nelle ipotesi oggetto delle sentenze del dicembre 2017 si è in presenza di attività che rientra nell’esercizio della professione e che è esente dal pagamento del contributo soggettivo semplicemente a causa dell’esclusione dell’iscrizione al regime previdenziale di categoria previsto in dipendenza di un rapporto di lavoro subordinato o comunque di altra attività esercitata. Ma in entrambi i casi il dato di partenza è comune: esiste un’attività che non è incisa da un prelievo contributivo suscettibile di alimentare una posizione previdenziale potenzialmente produttiva di una prestazione pensionistica, pur esistendo in capo al soggetto interessato, per altra attività, una copertura assicurativa.
A fronte, dunque, del medesimo dato di partenza, se si condivide l’assunto secondo cui l’universalizzazione operata dall’art. 2, co. 25 ss., l. n. 335/1995 con l’istituzione della gestione separata deve essere intesa in senso oggettivo (cioè riferita ai redditi non assoggettati a contribuzione), oltre che soggettivo (cioè riferita ai soggetti completamente privi di copertura previdenziale), appare difficile dissentire dalla soluzione adottata dalla Suprema Corte.
D’altra parte, v’è anche da aggiungere che, in virtù di quanto previsto dall’art. 12, co. 11, d.l. n. 78 del 31 maggio 2010 (convertito in legge 30 luglio 2010, n. 122), per «i rapporti di lavoro per i quali è obbligatoriamente prevista l’iscrizione alla gestione previdenziale di cui all’art. 2, comma 26, della legge 16 agosto 1995, n. 335» non opera nemmeno il principio dell’attività prevalente di cui all’art. 1, co. 208, l. n. 662/1996, che, in presenza di contemporaneo esercizio di varie attività autonome assoggettabili a diverse forme di assicurazione obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia e i superstiti, consentirebbe, appunto, l’iscrizione nell’assicurazione prevista per l’attività alla quale gli stessi dedicano personalmente la loro opera professionale in misura prevalente.
Al dunque, l’elemento di “disturbo” in simili vicende finisce per essere, perciò, soprattutto l’imposizione di un contributo integrativo del tutto slegato dall’esistenza di una posizione assicurativa fruttuosa, cioè idonea a dar luogo a copertura previdenziale: un contributo – come si è detto – giustificato dalla giurisprudenza costituzionale nell’ottica di una nozione veramente ampia di solidarietà, ma che, in realtà, mostra di possedere tutti i connotati del prelievo fiscale.

Sul tema si segnala:
Commentario breve alle leggi del processo tributario
Consolo Claudio, Glendi Cesare, CEDAM, 2017
(Altalex, 28 marzo 2018. Articolo di Riccardo Vianello)
[1] Cass. 19 novembre 2015, n. 23687, in Foro it., 2016, I, c. 131.
[2] V., ad esempio, Trib. Roma 26 ottobre 2017, n. 8733 (la si può leggere nella banca dati DeJure, come parte delle altre sentenze di merito in seguito richiamate), che afferma l’obbligo di iscrizione nella gestione separata INPS non solo di tutti coloro che non siano iscritti ad altra gestione previdenziale, ma anche di coloro che, seppure iscritti a un’altra gestione previdenziale, non sono tenuti a versare, sulla base delle previsioni statutarie e regolamentari dell’ente previdenziale, il contributo soggettivo, e ciò sul presupposto che «la contribuzione integrativa non può ritenersi sostitutiva di quella obbligatoria istituita presso l’INPS; il contributo integrativo non ha natura strettamente previdenziale e non è collegato a futuri trattamenti pensionistici, in quanto ripetibile nei confronti del debitore con la chiara funzione di finanziare altre prestazioni erogate dalla Cassa. Lo stesso pertanto è diverso dal contributo soggettivo minimo; è una maggiorazione percentuale sui corrispettivi prodotti che deve essere versato da tutti gli iscritti all’Albo, mentre il contributo soggettivo obbligatorio deve essere versato dai soli iscritti alla Cassa predetta».
[3] In questi termini, tra le molte reperibili on line: Trib. Rieti 9 maggio 2014, n. 339; Trib. Lecce 12 novembre 2014, n. 4793; Trib. Lodi 16 gennaio 2015; Trib. Lanciano 7 maggio 2015, n. 137; Trib. Como, Sez. II, 7 ottobre 2015; Trib. Taranto 19 novembre 2015, n. 4616 (che in motivazione richiama Trib. Reggio Calabria 1 ottobre 2013, Trib. Roma 18 giugno 2013 e 30 maggio 2013, Trib. Rieti 9 maggio 2013, Trib. Nicosia 16 aprile 2013, Trib. Aosta 23 febbraio 2011); Trib. Foggia 10 novembre 2016, n. 7830 (che richiama altresì Trib. Lanciano 5 maggio 2016, Trib. Pescara 22 settembre 2016, Trib. Bari 19 ottobre 2016).
[4] In proposito v. le considerazioni di G. Canavesi, L’incerto destino della privatizzazione della previdenza dei liberi professionisti tra “paure” del legislatore e autofinanziamento, in G. Canavesi (a cura di), La previdenza dei liberi professionisti dalla privatizzazione alla riforma Fornero, Torino, 2017, pp. 8-9.
[5] R. Vianello, La nuova tutela previdenziale per le attività di lavoro autonomo, libero-professionale e di collaborazione coordinata e continuativa, in C. Cester (a cura di), La riforma del sistema pensionistico, Torino, 1996, p. 270 ss.
[6] Poi art. 53, co. 1 e 2, lett. a (questa lettera è stata abrogata dall’art. 34, co. 1, lett. d, l. 21 novembre 2000, n. 342), e i redditi «percepiti in relazione ad altri rapporti di collaborazione aventi per oggetto la prestazione di attività svolte senza vincolo di subordinazione a favore di un determinato soggetto nel quadro di un rapporto unitario e continuativo senza impiego di mezzi organizzati e con retribuzione periodica prestabilita, sempreché gli uffici o le collaborazioni non rientrino nei compiti istituzionali compresi nell’attività di lavoro dipendente di cui all’articolo 46, comma 1, concernente redditi di lavoro dipendente, o nell’oggetto dell’arte o professione di cui all’articolo 49, comma 1, concernente redditi di lavoro autonomo, esercitate dal contribuente», sono “transitati” nell’art. 50, co. 1, lett. c-bis, del t.u.i.r. (art. 34, co. 1, lett. b), l. n. 342/2000, a decorrere dal 1° gennaio 2001).
[7] Dato il tenore del comma 13, infatti, si poteva supporre che il lavoratore che svolgesse un’attività lavorativa già coperta obbligatoriamente dal punto di vista previdenziale, nonché un’attività di cui all’ex art. 49, co. 1 e 2, lett. a, del t.u.i.r., non fosse tenuto all’iscrizione alla gestione separata: in altre parole, la copertura previdenziale obbligatoria sembrava dover operare come condizione di esenzione dall’iscrizione alla gestione separata, nonostante quella copertura fosse relativa ad attività diversa dall’attività per la quale era stato istituito il nuovo obbligo di iscrizione.
[8] Questa è la lettura dell’art. 2, co. 25 ss., l. n. 335/1995 che si è, poi, affermata.
[9] M. Cinelli, Positività e incongruenze della «quarta gestione» INPS, in Riv. dir. sic. soc., 2014, p. 310.
[10] R. Vianello, La nuova tutela previdenziale per le attività di lavoro autonomo, libero-professionale e di collaborazione coordinata e continuativa, cit., p. 272.
[11] Art. 18, co. 11, d.l. n. 98/2011: «Per i soggetti già pensionati, gli enti previdenziali di diritto privato di cui ai decreti legislativi 30 giugno 1994, n. 509 e 10 febbraio 1996, n. 103, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto adeguano i propri statuti e regolamenti, prevedendo l’obbligatorietà dell’iscrizione e della contribuzione a carico di tutti coloro che risultino aver percepito un reddito, derivante dallo svolgimento della relativa attività professionale. Per tali soggetti è previsto un contributo soggettivo minimo con aliquota non inferiore al cinquanta per cento di quella prevista in via ordinaria per gli iscritti a ciascun ente».
[12] V. anche l’art. 7.1 dello Statuto di INARCASSA (cfr. il testo approvato dai Ministeri vigilanti con d.m. del 21 giugno 2016): «L’iscrizione ad INARCASSA è obbligatoria per tutti gli ingegneri e gli architetti che esercitano la libera professione con carattere di continuità e ad essi esclusivamente riservata».
[13] La norma è riportata testualmente anche nell’art. 7.5 dello Statuto di INARCASSA.
[14] Si rammenti che Corte cost. 20 dicembre 1993, n. 450, in Giust. civ., 1994, I, p. 316 ha ritenuto infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 21, co. 5, l. n. 6/1981, nella parte in cui non conserva l’esclusione dall’iscrizione alla cassa di previdenza per gli ingegneri e gli architetti dei professionisti titolari di pensione a carico di una forma di previdenza cui erano obbligatoriamente iscritti in dipendenza di una pregressa attività di lavoro subordinato o autonomo, argomentando sulla base del «principio solidaristico, cui è improntato anche il sistema previdenziale degli ingegneri e degli architetti dopo la riforma del 1981, che ne ha corretto il carattere individualistico derivante dal criterio di mutualità temperando le esigenze del singolo a favore della solidarietà di gruppo». In precedenza si era già espressa in tal senso Corte cost. 8 giugno 1992, n. 259, in Giur. it., 1993, I, 1, c. 16.
[15] La giurisprudenza della Corte costituzionale è consolidata nel senso di ricollegare l’obbligatorietà del contributo, in virtù del principio solidaristico, al solo elemento oggettivo del potenziale esercizio dell’attività professionale: v. in tal senso, per i medici, Corte cost., ord. 23 giugno 1988, n. 707, in Dir. lav., 1988, II, p. 408; per i geometri, Corte cost., ord. 14 luglio 1988, n. 813, in Giur. cost., 1988, I, p. 3854; per i veterinari, Corte cost., ord. 17 marzo 1995, n. 88, in Riv. giur. lav., 1996, II, p. 59, con nota di A. Andreoni, Solidarietà e autofinanziamento nella previdenza sociale e nel comparto libero professionale.
[16] In epoca ben antecedente all’avvio della c.d. “Operazione Poseidone”, e con riferimento a una problematica simile, avevamo sostenuto questa tesi in R. Vianello, La nuova tutela previdenziale per le attività di lavoro autonomo, libero-professionale e di collaborazione coordinata e continuativa, cit., pp. 286-287, osservando che l’art. 2, co. 26, l. n. 335/1995 poteva ben essere inteso come volto a «evitare che alcuni tipi di reddito – pur rilevanti fiscalmente – [fossero] sterili in termini contributivi, cioè previdenzialmente improduttivi di effetti perché non incisi da alcun contributo».
[17] Questo almeno è il convincimento dell’INPS, manifestato espressamente nella circolare n. 72 del 10 aprile 2015: «Il legislatore, all’art. 18, comma 12, del d.l. 98/2011, convertito nella legge n. 111/2011, con norma di interpretazione autentica, ha confermato quanto disciplinato nelle norme del 1995 e l’orientamento espresso da questo Istituto con circolare n. 9/2011 e messaggio n. 709/2012».
[18] V. la circolare INPS n. 99 del 22 luglio 2011 (ribadita, poi, nel messaggio n. 709 del 12 gennaio 2012), la quale così esemplifica le «ipotesi che comportano l’assenza di iscrizione/versamento alla Cassa di appartenenza:
– mancato raggiungimento di un livello minimo di reddito
– esercizio di attività di tirocinio o praticantato
– esistenza di altra copertura contributiva contestuale allo svolgimento della professione, a causa della quale la Cassa di appartenenza esclude l’obbligo di versamento del contributo soggettivo, relativo all’attività professionale».
[19] Così la circolare INPS n. 124 del 12 giugno 1996, punto 1.4 («Professionisti che versano alla propria cassa un contributo forfettario determinato in misura fissa»).
[20] V. la circolare INPS n. 112 del 25 maggio 1996.
[21] Anche se è ben noto che pure un versamento contributivo previdenziale può risultare improduttivo sul piano pensionistico se non sono raggiunti i requisiti minimi di accesso alle prestazioni.
[22] Si tratta di Cass., Sez. Un., 12 febbraio 2010, n. 3240 (in Foro it., 2010, I, c. 826; in Mass. giur. lav., 2010, p. 464, con nota di A. Rondo, Socio amministratore di società: esclusa la doppia iscrizione contributiva; in Giur. it., 2010, p. 2104, con nota di G. Canavesi, Esercizio di attività commerciale da parte del socio amministratore di srl: le sezioni unite si pronunciano a favore dell’unicità dell’iscrizione al regime previdenziale corrispondente all’attività prevalente; e in Inf. prev., 2010, p. 134, con nota di C. D’Aloisio, La tutela previdenziale dei soci di società di persone ed srl dopo la sentenza della corte di cassazione 3240/2010 e l’interpretazione legislativa dell’art. 1, 208º comma, l. 662/1996).
[23] Sull’uso di questa terminologia sia consentito rinviare ancora a R. Vianello, La nuova tutela previdenziale per le attività di lavoro autonomo, libero-professionale e di collaborazione coordinata e continuativa, cit., p. 287.
[24] A dire il vero, quella decisione delle Sezioni Unite a sua volta ricopiava, in certi passaggi parola per parola, un articolo di un consulente del lavoro di Paderno Dugnano, che commentava Cass. 5 ottobre 2007, n. 20886: v., infatti, A. Asnaghi, La duplicazione previdenziale dell’amministratore socio: un nodo ancora da sciogliere, in Bollettino Adapt n. 43/2007, consultabile all’indirizzo http://bollettinoadapt.unimore.it/allegati/07_43_2_PREVIDENZA.pdf.
[25] R. Pessi, Lezioni di diritto della previdenza sociale, 9ª ed., Milanofiori Assago, 2016, p. 225 parla, appunto, di «generalizzazione della tutela a tutti i produttori di reddito da lavoro».
[26] Il reddito inciso dal prelievo contributivo, infatti, deve essere collegabile all’esercizio dell’attività libero-professionale per la quale vi è stata l’iscrizione nell’albo o elenco: così Cass. 12 maggio 2010, n. 11472. V., però, anche Corte cost. 7 novembre 2001, n. 354, secondo cui «l’intima ed indefettibile correlazione […] tra contribuzione e reddito di lavoro non trova riscontro nel modello di previdenza sociale che è dato desumere» dall’art. 38 Cost., precetto «rivolto, oltretutto, più che a definire le fonti di finanziamento del sistema, a segnare il livello di tutela che deve essere garantito attraverso le prestazioni previdenziali», tenuto altresì conto della «commisurazione della contribuzione a basi di riferimento non costituite, solo ed esclusivamente, dal reddito che trova causa nel rapporto di lavoro».
[27] Così M. Cinelli, Positività e incongruenze della «quarta gestione» INPS, cit., p. 321.
[28] Secondo l’art. 6, d.m. n. 281/1996, «non sono soggetti alla contribuzione di cui al presente decreto i redditi già assoggettati ad altro titolo a contribuzione previdenziale obbligatoria».
[29] Infatti, si legge ancora in quella circolare che «l’eventuale pagamento del solo contributo integrativo o di solidarietà, ossia un contributo non correlato all’erogazione di un trattamento pensionistico, non comporta esclusione dal versamento della contribuzione alla gestione separata».
[30] Eloquente è il passaggio in cui il contributo integrativo è definito «un’ulteriore fonte di entrate con cui sopperire alle prestazioni» cui INARCASSA è tenuta.
[31] Diverso, invece, è il caso dell’ingegnere o architetto iscritto a INARCASSA, il quale, a decorrere dal 1° gennaio 2013, può beneficiare della retrocessione del contributo integrativo ai fini previdenziali nel proprio montante individuale, secondo determinate percentuali (v. l’art. 26.5 del Regolamento generale di previdenza INARCASSA 2012).
[32] La sentenza (pubblicata in Foro it., 2007, I, c. 401) individua i connotati distintivi del tributo nella «presenza di un’obbligazione tributaria, di strumenti di acquisizione coercitiva, di imposizione autoritativa, e di obbligatorietà del versamento» e nell’«assenza di una qualsiasi forma di beneficio diretto della prestazione correlato al pagamento delle somme dovute».
[33] In questo senso già Cass. Sez. trib., 22 dicembre 2004, n. 23800, con formula poi divenuta pressoché tralatizia.
[34] V. l’art. 4.3, co. 1, del Regolamento generale di previdenza INARCASSA 2012.
[35] Art. 25.1 del Regolamento generale di previdenza INARCASSA 2012.
[36] In questo senso v.: Cass. 29 agosto 2012, n. 14684, in Foro it., 2012, I, c. 2627, con nota di richiami di L. Carbone; Cass. 8 marzo 2013, n. 5827, in Foro it., 2013, I, c. 1505. In dottrina v. già R. Vianello, La nuova tutela previdenziale per le attività di lavoro autonomo, libero-professionale e di collaborazione coordinata e continuativa, cit., p. 288.