Con ordinanza
n. 24819 del 18 agosto 2023, la terza sezione civile della Corte di Cassazione
ha ribadito l’orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità
secondo il quale, “in tema di locazione di immobili urbani, la condanna del
conduttore al pagamento dei canoni da scadere sino alla riconsegna
dell’immobile locato, dal medesimo comunque dovuti a seguito della risoluzione
della locazione a titolo di danni per la protratta occupazione dell’immobile
(ai sensi dell’art. 1591 c.c.), costituisce ampliamento della domanda di
risoluzione del contratto di locazione per inadempimento del conduttore, che
trova fondamento nella particolare disposizione dell’art. 664, comma 1, c.p.c.”,
trattandosi di “ipotesi specifica di condanna c.d. in futuro, di carattere
tipico e di natura eccezionale, con la quale l’ordinamento tutela l’interesse
del creditore all’ottenimento di un provvedimento nei confronti del debitore
prima ancora che si verifichi l’inadempimento” (così, da ultimo, in motivazione
Cass. civ., sez. III, 14 dicembre 2016, n. 25599; nello stesso senso già Cass.
civ., sez. III, 31 maggio 2005, n. 11603; Cass. civ., sez. III, 25 maggio 1992,
n. 6245).
Orbene, la tesi secondo cui – all’esito della
conversione del giudizio di convalida di sfratto per morosità, in un ordinario
giudizio di risoluzione per inadempimento – la condanna al pagamento (anche)
dei canoni a scadere sarebbe possibile solo se la stessa fosse stata proposta
“ab origine”, e sempre che lo sfratto fosse stato convalidato, non trova
riscontro nella giurisprudenza di legittimità, dalla quale, anzi, si evince
l’esatto contrario. Essa, infatti, ha da tempo chiarito che quando “venga
intimato sfratto per morosità e, a seguito dell’opposizione del conduttore,
sorga controversia” tra le parti, la domanda formulata dalla parte locatrice
“in primo grado” e “diretta ad ottenere – oltre la risoluzione del contratto –
anche la condanna dei conduttori al pagamento dei canoni scaduti e da scadere,
non può considerarsi […] né una domanda nuova […], né una domanda diretta ad
ottenere l’adempimento dopo che era stata richiesta la risoluzione, vietata ai
sensi del secondo comma dell’art. 1453 c.c., perché, nel caso in cui il
locatore abbia proposto domanda di risoluzione del contratto di locazione per
morosità, l’ulteriore richiesta di pagamento dei canoni scaduti e da scadere
non incorre nel divieto stabilito” da tale norma, “in quanto il locatore,
richiedendo anche il pagamento dei canoni, non intende far rimanere in vita il
rapporto fino alla scadenza pattuita o imposta dalla legge, ma, al contrario,
esige contemporaneamente alla risoluzione del contratto, il pagamento di quanto
dovutogli dal conduttore come corrispettivo per il godimento dell’immobile”,
ponendosi tale ulteriore richiesta, pertanto, come “un ampliamento quantitativo
di quella originaria che, mantenendo inalterati i termini della contestazione,
determina soltanto una modificazione della medesima domanda originaria” (cfr.
Cass. civ., sez. III, n. 6245 del 1992, cit.). Un ampliamento, si è pure
precisato, che non deriva dall’applicazione diretta dell’art. 664, comma 1, c.p.c.,
ma che in tale norma “trova sostanzialmente la sua ratio”, giacché essa prevede
“una delle ipotesi particolari di c.d. condanna in futuro (quella, cioè, in cui
l’ordinamento valorizza l’interesse del creditore ad ottenere un provvedimento
a carico del debitore prima ancora che si verifichi l’inadempimento
dell’obbligato), secondo la previsione di un mezzo di tutela giurisdizionale
non di tipo generale, ma eccezionale e tipico, del quale non è consentito,
tuttavia, allargare per analogia l’area di applicabilità oltre le ipotesi” – di
tutte le ipotesi, vale qui precisare, e non solo quella contemplata dalla norma
suddetta – “espressamente previste di risoluzione della locazione” che trovano
titolo in un “inadempimento del conduttore” (così Cass. civ., sez. III, n.
11603 del 2005, cit., relativa, non a caso, ad una fattispecie in cui la
richiesta di risoluzione del contratto per inadempimento del conduttore, e di
condanna dello stesso a pagare i canoni non solo scaduti ma anche a scadere
fino al rilascio del bene, era stata proposta dal locatore addirittura in via
riconvenzionale, e dunque al di fuori del procedimento ex art. 558 c.p.c.). Del
resto, se così non fosse, ovvero se non si potesse prescindere
dall’instaurazione del procedimento di convalida di sfratto (o dal suo esito),
non si comprenderebbe il senso dell’affermazione compiuta dalla Suprema Corte,
secondo cui “la condanna del conduttore al pagamento dei canoni da scadere sino
alla riconsegna dell’immobile locato” trova la sua ragion d’essere nel fatto
che essi risultano “dal medesimo comunque dovuti a seguito della risoluzione
della locazione a titolo di danni per la protratta occupazione dell’immobile
(ai sensi dell’art. 1591 c.c.)” (così, Cass. civ., sez. III, n. 25599 del 2016,
cit.), Né, in senso contrario, vale invocare Cass. civ., sez. III, 14 gennaio
2005, n. 676) giacché essa si limita ad affermare che, superata all’esito
dell’opposizione dell’intimato la fase della convalida dello sfratto per
morosità del conduttore, l’impossibilità di fare applicazione dell’art. 664,
comma 2, c.p.c. – che prevede la possibilità di ingiungere all’intimato solo il
pagamento di canoni di locazione, e non di somme dovute ad altro titolo – ha
come effetto il superamento della preclusione a richiedere, oltre alla
risoluzione del contratto per inadempimento del conduttore, la penale prevista
per tale ipotesi.