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Dove viene tassato lo smart working? Nel paese di residenza fiscale dell’azienda per la quale il dipendente lavora o in quello in cui quest’ultimo svolge la sua attività? A questa domanda possiamo dare una risposta rapida e veloce: nel caso in cui l’attività in smart working venga svolta per un datore di lavoro non residente, la tassazione è quella del Paese in cui l’attività lavorativa viene effettivamente svolta dal dipendente. Fatta questa premessa generale, è necessario verificare se sussistano delle convenzioni contro le doppie imposizioni tra i due Stati coinvolti.

In più occasioni, l’Agenzia delle Entrate ha provveduto a fare chiarezza sui criteri di collegamento dell’attività lavorativa dipendente con le modalità di svolgimento dello smart working. In linea di principio deve sempre valere l’assunto che il reddito da lavoro dipendente deve essere tassato nel paese dove viene svolta l’attività lavorativa. Ovviamente deve essere anche presa in considerazione la tassazione concorrente dello Stato che ha provveduto ad erogare il reddito. Ma cerchiamo di entrare meglio nel dettaglio.

Smart working: la tassazione nel paese di svolgimento

A spiegare nel dettaglio dove debba essere tassato lo smart working è la risposta all’interpello 626/E/2021 dell’Agenzia delle Entrate, grazie alla quale gli uffici tributari hanno analizzato il caso di una cittadina italiana, regolarmente iscritta all’Aire, che lavora come dipendente per una società lussemburghese. La lavoratrice ha dichiarato di svolgere la propria attività lavorativa per più di 183 giorni in Italia, lavorando in smart working. L’obiettivo della contribuente è quello di comprendere quali siano i suoi obblighi in Italia per quanto riguarda il reddito da lavoro dipendente.

Uno dei punti di partenza per comprendere quali siano i criteri di collegamento tra lo smart working ed i redditi da lavoro dipendente è l’articolo 24, comma 1, lettera c) del TUIR, con il quale vengono considerati prodotti in Italia tutti i redditi da lavoro dipendente che vengono prodotti nel nostro paese.

Questa particolare disposizione, però, non trova applicazione nel caso in cui l’Italia e lo Stato di residenza del lavoratore abbiano sottoscritto una convenzione per eliminare le doppie imposizioni. La convenzione, inoltre, deve riconoscere all’altro paese la potestà impositiva esclusiva sul reddito da lavoro che è stato prestato in Italia.

Il caso specifico

Nel caso preso in esame dall’Agenzia delle Entrate l’Italia ha sottoscritto una convenzione con il Lussemburgo per evitare le doppie imposizioni, che è stata ratificata attraverso la Legge n. 747/82. L’articolo 15 della suddetta convenzione prevede esplicitamente che

I salari, gli stipendi e le altre remunerazioni analoghe che un residente di uno Stato contraente riceve in corrispettivo di un’attività dipendente sono imponibili soltanto in detto Stato, a meno che tale attività venga svolta nell’altro Stato contraente. Se tale attività è quindi svolta, le remunerazioni percepite a tal titolo sono imponibili in questo altro Stato.

Il luogo della prestazione lavorativa

Di particolare importanza, nel determinare il cosiddetto criterio di collegamento del reddito, è il luogo di prestazione dell’attività lavorativa. Soprattutto quando questa viene svolta in smart working.

A fornire un utile riferimento interpretativo è l’articolo 15, paragrafo 1, del Modello OCSE per eliminare le doppie imposizioni. Per individuare lo Stato contraente nel quale il dipendente svolge la propria attività lavorativa è necessario tenere presente quale sia lo Stato nel quale il dipendente è presente fisicamente mentre esercita l’attività per la quale è pagato. Il reddito percepito dal lavoratore non può essere assoggettato ad imposizione nell’altro Stato contraente, anche quando i risultati della prestazione lavorativa vengono utilizzati in quello Stato.

Tornando al caso preso in esame, l’Agenzia delle Entrate ritiene che l’attività di lavoro svolta dal contribuente residente in Lussemburgo ma svolta in Italia sia rilevante ai fini fiscali anche nel nostro paese, ai sensi degli articoli 49 e 51, commi da 1 a 8, del TUIR.

La doppia imposizione internazionale

Nel caso preso in esame il lavoratore è quindi tenuto a dichiarare il reddito da lavoro dipendente sia in Italia che in Lussemburgo.

La doppia imposizione è risolta ai sensi dell’articolo 24, paragrafo 1 della Convenzione: il Lussemburgo, stato di residenza del lavoratore, riconoscerà un credito d’imposta allo stesso.

I criteri di tassazione dello smart working

Dal caso preso in esame risulta chiaro che i criteri di tassazione, a cui sono sottoposti i redditi da lavoro dipendente in smart working, costituiscono un aspetto molto importante da tenere sotto controllo. Soprattutto quando l’attività lavorativa viene svolta in uno Stato diverso rispetto a quello del datore di lavoro.

Sicuramente uno degli aspetti più delicati e allo stesso tempo interessanti è il luogo di esercizio dell’attività, che risulta essere quello nel quale il lavoratore si trova materialmente. Nel momento in cui siamo davanti ad una convenzione sottoscritta da due Paesi, il cui scopo è quello di evitare la doppia tassazione, in realtà siamo davanti ad una tassazione concorrente del reddito. In questo caso, l’unica possibilità che può portare ad evitare di pagare le tasse in Italia è quella di verificare la sussistenza dei requisiti del paragrafo 2 dell’art. 15, che prevedono esplicitamente la tassazione esclusiva nel Paese di residenza fiscale del lavoratore.

Perché questo avvenga, comunque vada, è necessario che sussistano contemporaneamente le seguenti condizioni:

  • il contribuente deve soggiornare nell’altro Stato per un periodo o per periodi inferiori – complessivamente – a 183 giorni nel corso di un anno fiscale;
  • la retribuzione deve essere pagata direttamente o per conto di un datore di lavoro che non sia residente fiscalmente nell’altro Stato;
  • l’onere delle varie retribuzioni non deve essere sostenuto da una stabile organizzazione o da una base fissa che il datore di lavoro ha nell’altro Stato.



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